I've got scars that can't be seen
I've got drama, can't be stolen
Everybody knows me now
Look up here, man, I'm in danger
I've got nothing left to lose
I'm so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below
Ain't that just like me?
By the time I got to New York
I was living like a king
Then I used up all my money
I was looking for your ass
This way or no way
You know, I'll be free
Just like that bluebird
Now ain't that just like me?
Oh I'll be free
Just like that bluebird
Oh I'll be free
Ain't that just like me?
Non parlare di David Bowie il mutante. Il trasformista. La rock star. L'amico di rock star. L'anticipatore di generi, il demolitore dei generi, il costruttore e il decostruttore di modi e mode.
Non pensare allo stato di New York, che ha il bluebird nel suo stemma. Non pensare al dramma Lazarus, che si sta rappresentando a New York proprio in questi giorni .
Non accodarti al cordoglio, anche se provi un sottile dolore, nel vedere caduto il corpo anche di chi non pensavi potesse cadere, visto che non ti sembrava appartenesse alla Terra.
Guarda invece questo suo ultimo, definitivo saluto.
La nostra società rimuove il dolore, quando disturba. La nostra società spesso lo spettacolarizza, ma non lo affronta; invece, lo esorcizza, e vuole il lieto fine, consolatorio, appagante.
La nostra società è anestetizzata, proprio nel senso che non prova altro che sensazioni superficiali, ma non possiede il senso estetico che diventi idea, possesso per sempre, dignità e forza.
Bowie, tanto plateale, clamoroso, provocatorio nella sua manifestazione pubblica, nella sua esistenza privata degli ultimi anni ha affrontato il dolore, il cancro, la morte, con un nascondimento, una dignità e un silenzio magistrali. Salvo custodire, come ultimo dono per il mondo, quest'ultima sua opera.
La stella della vita possiede un lato nero; la vita è morte, e la vita e la morte, sorelle per sempre, ci indicano la strada. E noi, creature di questa terra o cadute dallo spazio, abbiamo il privilegio di vivere, soffrire, invecchiare, ammalarci e morire, perché di questo è fatta la vita.
Ma alcuni di noi, quelli benedetti, hanno anche la capacità di trasformare la vecchiaia, il dolore, la malattia, la morte, in arte. Ossia, in vita perenne. E non importa che quanto vediamo, o ascoltiamo, o leggiamo, sia crudo, agghiacciante, sconvolgente, realistico, drammatico, toccante, disturbante, perturbante, straziante. Importa che l'arte vinca, che affronti con dignità e coraggio la fine della vita, la sofferenza e la sua ingiustizia, per restituircele armoniose, brillanti di un cupo splendore. Noi, piccolo pubblico per un gesto immenso, ricorderemo questo dono, per il nostro personale per sempre , e lo custodiremo, senza mai capirlo del tutto.
E, dall'altrove in cui si trova la sua arte, chi ce lo ha regalato canterà...
con profonda tristezza, lo condivido sul mio blog.
RispondiEliminaciao
grazie!
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