lunedì 4 aprile 2016

Il 5 di aprile

era il 5 di aprile
e tirava una brezza che dava un colore alla quiete
e profumo di pane alle olive


Mi tenevo la pancia, sul pullman da Olgiate Comasco a Como. Mio marito non era ancora arrivato, aveva troppo da lavorare, e mi aveva detto al telefono "tu vai, io ti raggiungo, tanto sei in anticipo di venti giorni, sarà un falso allarme, vedrai".

Sul pullman, tutti mi guardavano, O almeno, così credevo. Una donna di trentasei anni, visibilmente incinta e agitata, dignitosa nel suo cappotto blu di panno, con una borsa da clinica, con dentro una camicia da notte, una vestaglia, le pantofole con il fiocco, e qualche mutanda, perché non si sa mai.

Ero scesa, tremando. Una vita dentro di me, una vita dietro, una vita davanti.
Mi avevano visitata, subito. Signora, si fermi qui, tra poco nascerà. Si sono già rotte le acque.
Chiamare casa, mia madre, mio padre, mio marito. Vieni, vieni, lei nasce.
Non sapevo se fosse una femmina o un maschio, eppure ne ero certa. Era una femmina.

Contrazioni, contrazioni, ansia e spinta verso il domani. Dolore, sacrificio, e sofferenza costruttiva.
Guardavo fuori dalla finestra, e vedevo un ramo di ciliegio fiorito. Ne immaginavo la forza operosa, e la succhiavo, per trovare il coraggio.
Poi, era successo. E mi ero trovata in braccio una neonata, occhi grandi, capelli folti, faccia curiosa e famelica. Mia figlia. Non avevo molto da offrirle: un padre affettuoso e onesto, due nonni anziani e laboriosi, una casa dignitosa, e me stessa. Ma soprattutto, una vita tutta intera, tutta da correre e guastare e gustare.

Chissà dov'è, quella mia figlia, ora. Da dove sto, non la vedo. Ma sento che mi pensa, nel suo modo sbilenco di amare.

Laura, cinquantacinque anni fa.


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