domenica 14 febbraio 2010

verrà l'uomo


Per i caduti di Marzabotto

Questa è memoria di sangue

di fuoco, di martirio,

del più vile sterminio di popolo

voluto dai nazisti di Von Kesselring

e dai loro soldati di ventura

dell’ultima servitù di Salò

per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano

fucilati e arsi

da oscura cronaca contadina e operaia

entrano nella storia del mondo

col nome di Marzabotto.

Terribile e giusta la loro gloria:

indica ai potenti le leggi del diritto

il civile consenso

per governare anche il cuore dell’uomo,

non chiede compianto o ira

onore invece di libere armi

davanti alle montagne e alle selve

dove il “Lupo” e la sua brigata

piegarono più volte

i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,

in esso uomini d’ogni terra

non dimenticano Marzabotto

il suo feroce evo

di barbarie contemporanea.

Salvatore Quasimodo


ci sono film che guardiamo senza esserne guardati. quei film scorrono al di fuori di noi, e, dopo un po', si allontanano per sempre. di loro resta il titolo, qualche fotogramma, una musica.
ce ne sono altri che ci attraversano, perché ci scrutano dentro, rivelandoci la nostra storia, suggerendone il senso, lo scopo. di quei film portiamo dentro ogni dettaglio, e, quando vogliamo, li rievochiamo nel ricordo, ed ogni volta ci danno nuovi pensieri, perché, ormai, fanno parte di noi.

'l'uomo che verrà', di giorgio diritti, è uno di questi.
e non importa se l'ho visto da due soli giorni. sento già che è mio. che lo aspettavo, che era necessario per me, per il percorso che la mia vita sta compiendo.

il fluire delle immagini ha un respiro lirico nella prima parte del film, fatto di scene corali, di campi lunghi, di delicati equilibri fra uomo e natura, alla ricerca del senso della storia. l'uso del dialetto (con sottotitoli), lungi dal respingere, avvicina chi guarda, quasi di nascosto, con pudore, un mondo lontano sessant'anni, eppure che sembra impensabile, nella povertà radicale, ma anche nella solidarietà silenziosa e rude.

quando la tragedia si avvicina, anche il racconto si fa serrato, epico, con primissimi piani e un montaggio convulso. e la disumanità dell'uomo si radicalizza, penetra, con tutta la sua assurdità, negli occhi prima che nelle menti, e questi si chiedono, stupefatti, come sia potuto DAVVERO accadere.

eppure, il punto di vista, a cui il regista ci costringe a legarci, è quello di una bambina, muta testimone dell'indicibilità. a lei affidiamo le nostre paure, ma anche il compito di liberarcene. e lei assume, inesorabilmente, un ruolo allegorico, prolungando la propria vita e potenziando le proprie energie oltre sé, fino a proiettarsi in una dimensione totalmente simbolica, quella dell'anima, in cui esistono solo amore, pace, purezza.



la natura assiste, inviolata, alla profanazione dell'innocenza dell'uomo, persa per sempre nella seconda guerra mondiale, a prescindere dall'ideologia, da qualunque parte la si guardi.
eppure, la stessa natura dà conforto al dolore, restituendo dignità a chi credeva di non riuscire più a trovarla. e l'arte riproduce questa consolazione, insieme suggerendo un possibile percorso, civile prima che estetico, da compiere, dolorosamente, ma con fiducia, per recuperare le energie necessarie a riprendere il cammino. per quel bambino, e per ogni bambino che verrà.