giovedì 10 ottobre 2013

e dei bambini solo quelli nati

Wislawa Szymborska

"Che cos'è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta."

da "Vista con granello di sabbia"


Ventun anni fa. Una vita. 
Un'attesa, una speranza, sfiorita nel passo di qualche settimana.
La trionfante sicurezza di una maternità che accendeva una luce negli occhi, spenta in breve tempo.
Una macchia di sangue, lo sbigottimento, e poi analisi, e visite, e sguardi dubbiosi.
Infine, lo stordimento di un anestetico, e tanto altro sangue, per lavare via la vita.

Non fa curriculum, tutto questo. Ma è successo. Ventun anni fa.

sabato 21 settembre 2013

Tempo e poesia




Una data nel tempo. Finisce l'estate, inizia l'autunno. La poesia filtra nel sole, lo vela di nostalgia e desiderio. Magliette leggere sotto giacche un po' più pesanti, a coprire una pelle che ha ancora bisogno di sole. Mattine più nebbiose, sere sempre più precoci e lunghe ombre. Ricordi e promesse.
21 settembre, una data nel tempo. Due date di nascita. Due nomi. Leonard Cohen, Ivano Fossati.
Il Canada e l'Italia. La poesia e il tempo, e la musica, a cucirli insieme.
Uno, ascetico guru dei sentimenti, voce profonda e sguardo a cercare costantemente il cielo, l'ispirazione, il ritorno a casa. Vita spesa a capirsi e capire, a cercare le parole giuste per dirlo, l'armonia perfetta, a inseguire un'icona sfuggente, una chimera appena sfiorata: il mistero dello spirito, avvitato a spirale su se stesso, ma, anche, aperto, con suprema carità, agli altri, per offrire e offrirsi. Musica come lama di luce che penetra attraverso uno spiraglio, donato dal dio della poesia per incrinare il muro del dolore.



L'altro, intellettuale mediterraneo, innamorato della musica e di tutti gli strumenti con cui farle l'amore. Flauto, chitarra, piano, voce. Un macramé slabbrato eppure coerente, cosciente che la vita è labile, che l'essenziale è invisibile, e che è così difficile dire anche la propria fragilità. Fratello che guarda il mondo con gli occhi di tutti, alla ricerca dell'amore, che, quando ci passa accanto, si deve essere capaci di prenderlo, smettere di scivolare disattenti e iniziare a vivere, dimenticandosi del resto, lasciando perle di poesia sparse negli anni, e permettendo che siano di tutti,  vissute da ciascuno , e comprese, perché l'esistenza di ognuno è immersa nel tempo, che è questo, qui, ora.



In questo tempo incerto, fra estate e autunno, la consolazione della musica. Un dono prezioso.

lunedì 19 agosto 2013

Lasciami qui



Lasciami qui, ancora un po’.

La sabbia fra le dita, o le montagne negli occhi. Il vento fra i capelli, o le colline che dormono, cullate dalle cicale.

Lasciami qui, a vivere un momento, a scomporlo in attimi, a respirare le ore senza tempo, a sognare che non finiscano mai, placida illusione del meriggio.

Ancora un po’, a guardare quell’isola lontana, a immaginarmi raggiungerla, solcando il baluginìo blu del mare. Oppure a perdermi nel soffice mantello di nuvole bianche, sprimacciandole prima di addormentarmi.

Vino nel bicchiere, frutta fresca fra i denti, pane tiepido sulla lingua, e, nel cuore, l’incanto bambino di una serenità ritrovata.

Lasciami qui, un po’ ancora, coi miei pensieri leggeri, coi miei ricordi, che ora non fanno più male, non più, curati come sono da questo sole, dall’ora estiva e festiva, dal mondo come dovrebbe essere sempre.

Uno sguardo a questo mondo, riflesso della mia anima, per portarlo con me, ovunque, sempre. Anche nell’incerto languore dell’autunno, anche nelle ombre lunghe dell’inverno. Lo metto in tasca, insieme a una conchiglia, a un sasso, a un filo d’erba. Talismani per domani.

Ecco. Ora sono pronta. Partire, senza voltarsi indietro; nel cuore, la meraviglia struggente di un grazie.

mercoledì 24 luglio 2013

Va bene così, dice Bruce

Cominciamo dalla fine:



Quando scrivo le mie storie, mia mamma mi consiglia sempre di avere ben chiaro dove voglio andare, come voglio finire. Credo proprio che quelli che hanno montato "Springsteen and I", il film che sono andata a vedere lunedì con mia mamma e mio fratello e altri amici, abbiano avuto bene in mente questa regola, perché io ho capito tutto quando ho visto la fine.

All'inizio, non capivo tanto perché, di tanti spezzoni che i fans di  tutto il mondo avevano mandato per fare il film, avessero scelto proprio quelli. Ce n'erano alcuni molto tristi, come quello del bambino quasi costretto dalla mamma a farsi vedere e dire che gli piace Bruce, mentre la mamma ha una cucina tutta in disordine, che si capisce che non gli fa da mangiare per sentire Bruce (io lo chiamo Bruce, è più corto e mi sembra di conoscerlo meglio, così), oppure quello della mamma (un'altra mamma, sembrava che ce l'avessero con le mamme...), che fa ascoltare solo Bruce e niente Disney in macchina ai suoi bambini (la mia mamma mi ha fatto ascoltare anche Disney, adesso però che ho quasi tredici anni, sono io che le chiedo Bruce, e ieri le ho chiesto di fare un giro più largo in macchina per fare finire Working on the highway...), o quello che guida e si autocommuove mentre guida (certo, diceva cose belle della sua famiglia, ma alla fine, autocommuoversi, non ci ha fatto una bella figura); il peggio, una signora tutta rossa in faccia che parlava di essere stata sollevata nel bel mezzo di Jungleland e portata sul palco (e anche a me Jungleland piace tantissimissimo, la vorrei tanto ascoltare in un concerto, ma mica mi immagino di essere sollevata su...).

Insomma, non capivo perché, fra tanti spezzoni belli, di gente brava, che dice cose anche intelligenti (ne conosco anche io, di gente così, che segue Bruce ed è anche intelligente), che di sicuro avevano mandato per il film, quelli avessero scelto anche spezzoni sciocchi, di gente fanatica, come dice la mamma, e io so che fans vuol dire fanatici, ma c'è un limite a tutto...

Non che ci fosse solo quel tipo di spezzoni: c'era anche Bruce, nel film, un Bruce che non avevo mai visto: giovane! Ho capito che era stato giovane anche lui, e cantava diverso da adesso, più brillante, come se la vita non gli fosse passata sopra, ma ne avesse solo paura. E tenesse lontana la paura cantando di fede, di forza, di terra promessa, di amicizia e di amore. Ho visto Bruce di tredici anni fa, invece, l'anno in cui sono nata io, che canta Blood brothers, prende le mani di Clarence, che però non aveva lo smalto come a Torino, e di sua moglie, e canta con le lacrime agli occhi, e si vede che la vita gli è passata sopra e dentro, eppure crede ancora nelle stesse cose. Ho visto Bruce come l'ho visto io l'anno scorso, che mi ha presa in braccio ma questa è un'altra storia, il grande amico di tutti, che sa come funziona la vita e te lo spiega con un sorriso, che non vuol dire 'prendila facile', ma 'va bene così, non importa che tu sia bravo o no, sciocco o saggio, tu fai del tuo meglio, e va bene così'.

Non che ci fosse solo anche Bruce: c'erano persone con storie forti: una camionista laureata che lavora in Arizona e mette su Nebraska, forse per avere fresco nel cuore, e pensa che Bruce le ha insegnato che va bene così. Una coppia che non ha i soldi per vederlo in un concerto, ma canta e balla in cucina, perché ha capito che va bene così. Un'altra coppia che mette via i soldi e va in un teatro grande a New York, ma è in  fondo in fondo, però arriva uno che li porta davanti davanti ( e io ci credo che succedono queste cose, a noi è successo a Torino). Una ragazza che scrive una lettera che sembrava scritta da noi, tanto che era giusta. Un marito che vuole così bene alla moglie che ride del fatto che Bruce fa concerti lunghi e lui li vorrebbe più corti perché non gli piace tanto (e lì non sono d'accordo, che a San Siro invece piangevo perché per me era già finito).

Insomma, mentre lo guardavo, capivo che il film, più che un film con una trama, era qualcosa come uno di quei puzzle che mi regalavano da piccola: che all'inizio è un gran caos, e ci sono pezzi brutti che sembra non vogliano dire niente, e poi invece, lentamente, si capisce che anche loro sono importanti come gli altri, perché aiutano a far prendere forma al disegno.
E il disegno è diventato chiaro alla fine. Bravi, quelli che hanno montato il film.
Qualche persona ha incontrato davvero Bruce nel camerino prima di un concerto. E lui era esattamente come lo descrivevano loro prima: un amico, un compagno buono, uno di quelli che ti sanno dare l'abbraccio al momento giusto e ti tirano su di morale perché ti dicono 'va bene così, non importa se sei fanatico intelligente emozionante squallido brillante povero ricco bravo imbranato bello brutto. Io ci sono anche per te. E la tua vita è unica, per me'.

A un ragazzo che lavorava in quello stadio, e che avrebbe pulito tutto dopo il concerto, Bruce ha messo attorno al braccio un braccialetto di cuoio: "questo è un segno di fratellanza", gli ha detto.
E' stato lì, che il film è finito. E' stato lì, che ho capito. Blood brothers. Lui, Clarence, Patti, il ragazzo, la camionista, il marito stanco, la signora esaltata, gli operai,  la mamma fanatica, la mia mamma, io.



Già: che significa per me Bruce in tre parole? Fiducia. Personalità. Coraggio. Quello che voglio avere io.



giovedì 4 luglio 2013

the promise

era una promessa. ti avevo detto "prima o poi ti porto nel pit, non esiste che proprio tu, che hai visto Zurigo 81, che hai visto 5 volte San Siro, che sei andato ovunque per sentirlo, non abbia vissuto un concerto in transenna".
era una promessa, e l'ho mantenuta. risparmiando per andarci, una piccola rinuncia dopo l'altra, finché non ho messo insieme quei soldi.
follow that dream, del resto, ce lo dice anche lui, no?
così, Michele ha organizzato il pullman, io ho comprato i biglietti per noi, ho coinvolto nell'avventura gli amici cari, e quelli che potrebbero diventarlo, e via.
così, ti regalo la raccolta di foto di questa gita del liceo, quella che tutti avrebbero voluto vivere a 18 anni, ma che, credo, non avremmo potuto vivere, a 18 anni, con tanta consapevolezza e gioia.

la sveglia all'alba, il fresco del mattino, l'ironia di Marcello e la dolcezza di Cecilia e Gabriella, la grinta di Katia, che ci salva dal parcheggio di Lampugnano (che sarebbe stato chiuso alle 4 di mattina...).
i sorrisi impastati di sonno e di aspettativa dei compagni di pullman; la tensione di Michele, organizzatore, la gentilezza di Roberto e degli altri.
le soste agli autogrill, caffé e nuvole dense di pioggia, ma "tanto noi siamo attrezzati...".
i giri in tondo attorno allo stadio, per poi scendere giusto davanti, nessuno stress per il parcheggio, per una volta ci pensano altri...
il numero sulla mano, e la foto alle mani vicine, pugni preparati ad aprirsi nell'applauso.
i panini e le risate nel centro commerciale, in attesa dell'appello.
e non piove, e non piove...
la coda per entrare, noia e chiacchiere mescolate.
la corsa per la transenna, e tu che mi mandi avanti, "scegli tu dove andare, a me va bene tutto.."
la transenna, la nostra sedia a sdraio per ore di amicizie vecchie e nuove.

e il concerto. "equilibrato", dirai tu. e come al solito hai ragione.
la qualità senza troppa quantità, l'energia di una band rilassata e divertita, che vedi che si diverte, e finalmente lo vedi veramente, non dalla percezione di realtà aumentata rimandata dagli schermi.
da qui, vedi le espressioni, l'interazione non ripresa dalle telecamere, ma reale; e la gioia aumenta.
l'essere al centro della musica, dove la musica si sprigiona, e diventa fuochi artificiali di energia e vita che scendono sui nostri cuori tornati bambini, come quel ragazzino di Napoli col suo papà, come quel bambino che si illumina di gioia quando Springsteen gli regala il suo plettro.
il suo passaggio davanti a noi, le nostre mani intrecciate, il suo sudore che si mescola al nostro, e il nostro volergli dire grazie, anche così, un grazie impastato di sudore e pioggia.
la pioggia che scende ma non dà fastidio, lui che ci si mette sotto, come a voler dire eccomi, sono anche io come voi, siamo uniti, ancora.
le lacrime mescolate nella pioggia, su 'frankie', regalo imprevisto e miracoloso.

e poi, la pioggia che cessa, ma le lacrime che scendono ancora, su the promise, su bobby jean (con la sua mano che ci indica proprio su quella frase che tanto amiamo: "well if you do you'll know I'm thinking of you and all the miles in between and I'm just calling one last time not to change your mind"...), soprattutto su thunder road, quando realizzo che siamo alla fine, ma che tutto continua.





il dopoconcerto, i commenti, il ritorno sul pullman silenzioso.
i corpi che si prendono il riposo meritato, dopo essersi presi la rivincita per tre ore, saltando, cantando, agitandosi, rabbrividendo, amando, finalmente, tutt'uno con l'anima.
l'arrivo a Milano, i saluti, e il primo chiarore dell'alba, mentre una falce di luna decora il cielo e abbiamo la certezza che we are alive, stamattina e per sempre, per il sempre che ci potranno concedere.
e sempre, sempre, la tua mano nella mia.
la promessa è stata mantenuta, la fiducia è stata ricompensata. e noi continuiamo a inseguire quel sogno.









martedì 4 giugno 2013

One last chance (Springsteen a San Siro)

Inizio dalla fine



Del resto, so bene come ribaltare le prospettive e i cuori. Non faccio altro, da più di quarant'anni, ormai.
Così, stasera inizio dalla fine. Inizio dall'abbraccio di San Siro, e dal mio bacio enorme. Ci stanno sessantamila cuori, nel mio bacio. Inizio dal mio ultimo sguardo a questo muro umano che si para davanti a me, arreso, potentissimo e fragile, felice e ingenuo, un unico cuore pulsante, appassionato e violentemente innamorato della vita, come me. Un unico corpo, composto di santi e peccatori, madonne e puttane, vittime tutte di un disperato bisogno di sognare, che so come trasformare in realtà.

Li guardo tutti, e so che tutti si sentono guardati, uno per uno, fin nel profondo della loro anima. So che li ho invitati a una festa di oltre tre oreemmezza. La festa sconfinata che è diventata questo concerto, l'ho pensata e voluta proprio così, portando quei cuori, e il mio, e i nostri,  in una mirabolante montagna russa di emozioni.
Doveva essere una festa, questa sera, e festa è stata. Sono riuscito a fare quasi sedere a terra l'intero prato, a fare muovere l'ultimo spettatore dell'ultima fila dell'ultimo anello, a fare cantare sessantamila persone prima forte, poi piano, poi di nuovo forte, a far loro agitare le mani, ridere, tacere, ballare, saltare, piangere, godere, sospirare e gridare.



Sono stato l'amico più affettuoso, l'amante più fedele, il figlio più simpatico, il nonno più arzillo, il direttore d'orchestra più esperto, il maestro più comprensivo, il compagno di scuola più leale, il medico più competente e il confessore più comprensivo. Sono stato tutto questo, per tutte le treoremmezza, come se il tempo non fosse mai passato, da quel 1985, che mi aveva visto qui per la prima volta, e rincorrendo le stesse emozioni, ricreando la stessa alchimia. E ce l'ho fatta, esorcizzando, facendo tacere, dentro di me, il mio essere più vero. Quel ragazzo di periferia che ha seguito i suoi sogni immaginandoli reali, e facendoli succedere, prima nel suo cuore, poi nella realtà, insieme a...a chi, ora, non è qui con me.




Sono stato tutto questo, per tutte le treoremmezza, perché questo muro umano lo meritava, perché senza di lui nemmeno io esisterei così come mi penso. Gli ho regalato brandelli di felicità, spruzzati attorno come gocce d'acqua in una sera d'inizio estate, che rinfrescano e fanno subito stare meglio, anche se poi si asciugano.
Ma ora, ora che siamo arrivati, insieme, alla fine, regalo un ultimo sguardo a questo muro umano, pieno di amore e struggimento e, finalmente, nostalgia. Torno ad essere quello che sono, lo specchio dei sessantamila cuori di fronte a me, o dentro di me: arreso, potentissimo e fragile, felice e ingenuo, io lui, e lui me. Dal primo fan del pit, avvinghiato alla transenna, fino all'ultimo spettatore, in piedi nell'ultima fila dell'ultimo anello. Perché così funziona, quando i sogni sono reali.



Quando scendo dal palco, gli occhi sono lucidi. I loro, i miei. E questa è vita.

giovedì 23 maggio 2013

Terminando nel noi



Don Gallo, scusami se ti scrivo ora. Sono arrivata in ritardo, ma del resto tu non sei nemmeno arrivato, e sì che ti aspettavo, due mesi fa. Stavi già male, ci avevano detto. Incontro rinviato, avevano detto.
Incontro rinviato, già. Eppure avevo pronto un libro da darti, e un paio di domande da porti.
Te le pongo ora, rispondimi con comodo. Abbiamo una vita, questa o l'altra non importa.

Vorrei chiederti come hai fatto a parlare di Dio senza stancarti, a indicare i fiori là dove i più vedevano solo letame, ad amare quei fiori, coltivarli, averne cura, riconoscerne i colori e il profumo, e restituirli al respiro del mondo.
Ogni tanto succede anche a me. Li so riconoscere, ogni volta in cui leggo nel brillare di quegli occhi l'inquietudine dei figli trascurati, lo strazio degli ultimi, la lacerazione degli incompresi. Ma quanto è difficile trovare le parole per riportare quei colori al destino che meritano.

Vorrei anche chiederti dove hai trovato tanta umiltà, nel restare grande anche quando ti schiacciavano, nel lasciarti parlare da Dio, nel farti attraversare da un io che termina nel noi, nel vivere quell'amore a perdere, di cui sei stato un profeta. A me non succede mai, ma so bene perché. Perché io condivido con gli uomini del mio tempo la malattia principale, l'accidia. Mentre tu te ne sei liberato subito, sgombrando il campo, facendo spazio all'invasione di uno spirito attivo, attento, attaccato alla vita e al suo amore.

Don Gallo, scusami se ti scrivo ora, e qui. Ma prendile così, queste poche righe imprecise, come un piccolo mazzo di fiori mal assortiti, deposto vicino al tuo corpo, che mi ha sempre ricordato quello, altrattanto esile, altrettanto forte, di mio padre.
In attesa di vivere l'incontro rinviato. Quando vivremo tutti la vita trasformata, mai tolta. Quando i nostri io termineranno tutti nel noi.
Intanto, grazie.

lunedì 20 maggio 2013

SpringsteEnergia


 

Come succede spesso per gli incontri importanti, non ricordo quale sia stata la prima volta in cui ho ascoltato un pezzo di Springsteen. Non mi ha nemmeno cambiato la vita subito, devo averlo messo idealmente fra i rocker di valore che ascoltavo in quegli anni. E ce ne erano molti, a cui ero devota, della devozione appassionata dei vent'anni.
Però, come succede sempre per gli incontri importanti, quella presenza si è fatta via via più stabile, costante; un punto di riferimento, musicale e umano, imprescindibile, nel bene e nel male, negli (innumerevoli) pregi e nei (pochi) difetti.
E, come succede sempre per le amicizie vere, poter contare su Bruce è diventata, nel corso del tempo, un'abitudine forte, una sorta di breviario quotidiano, fatto di parole intrecciate con la musica, a cui rivolgermi nei passaggi obbligati di un'esistenza.
Le amicizie vere sono rare e preziose. Poche, ma durature. E riconoscere nell'amico le stesse rughe, le stesse fragilità, ma anche la stessa coerenza, la stessa energia, è ciò che davvero rende unica l'esperienza di un'amicizia.

Per questo, e per molto altro, do il mio benvenuto a Bruce in Italia, per l'ennesimo bagno di folla, di forza, di fede in una terra promessa che è qui, ora, che è dei diseredati e dei folli, dei santi e dei peccatori, degli uomini e delle donne che conoscono la chiave per resistere su questa crosta di terra: l'energia dei sogni.








domenica 19 maggio 2013

Polvere e lacrime



Ho appena dato il mio primo bacio. E ho lo stomaco che ondeggia, come in mezzo ai marosi. La vita è questo, mi pare di capire. Ma ho quindici anni e mezzo, e ho dato il mio primo bacio, e non ragiono in modo molto lucido.
Sono in solaio con mia madre. Sta sistemando gli oggetti della casa dei nonni. I nonni non ci sono più, come si dice, sono morti. Ma ogni tanto io li sento parlare, sento mia nonna entrare nella mia camera e dirmi 'salutiamo le tortorelle sul filo!'. E sento mio nonno che mi canta le arie di opera, e mi declama il primo verso dell'Iliade. Li sento anche ora, parlottare piano, dietro all'armadio pieno dei loro oggetti.
Sono in solaio, cerco di aiutare mia madre, ma penso alla dolcezza di quel bacio. La vita mi spinge più in là, oltre la polvere di questo posto pieno di oggetti. Guardo la piccola finestra che dà sui tetti, e mi sembra di passarci attraverso, e di volare oltre.




Mia madre scarta, seleziona, legge, ricorda, apre cassetti e scatole, tiene da parte e butta. E' immersa negli oggetti, nelle fotografie, nelle lettere, nei libri, nei regali di una vita. Ogni tanto sospira. Ogni tanto esclama 'ma guarda!', e tenta di ricostruire, per me, il senso di un'esistenza familiare trascorsa senza di me.
Le vacanze in montagna, quelle in Toscana, le cartoline, e le feste di Natale, i regali, i souvenirs, ma anche le lunghe settimane di scuola, i diari, i quaderni, le bambole e le automobiline, e poi i vasi, i quadri, piatti, posate, brocche e bicchieri. Una casa. Una famiglia.

Un'onda di tempo diventato oggetti la sommerge. Le mani nere di polvere, il viso rigato di lacrime. La linea discontinua di una serie di anni diviene un filo sottile e tenace che la tiene avvinta, gli occhi persi a inseguire i ricordi che quegli oggetti contengono, e che stanno sprigionando solo per lei.
Lei scarta, seleziona, legge, e piange. Le lacrime si mescolano alla polvere, in questo addio silenzioso. E io ne sono testimone, io, con il ricordo del mio primo bacio chiuso nello stomaco a doppia mandata, che mi dà la paura e insieme la forza di assistere alla fine di qualcosa, proprio mentre inizia qualcos'altro.





mercoledì 15 maggio 2013

Cherchez la Mamme

Ma la nave non è fatta di clandestini, stanziali per cinque, sei anni al massimo, e di manovali della cultura, sempre più vecchi e sempre più in affanno, a manovrare la nave fra i marosi e le secche di un percorso accidentato.
Ogni tanto, soprattutto quando si avvicina la fineanno, sale a bordo una Mamma.
La Mamma è solitamente ben curata nell'aspetto, gentile e melliflua. Ha un approccio iniziale fra il reverente e il confidenziale, abbonda in professoressa, oppure solo prof, per la tipologia Mamma confidenziale giovanilistica.

La Mamma è chioccia protettiva; in genere innamorata del proprio Figlio, meno della Figlia, sulla quale, non potendo proiettare passioni edipiche, riversa tutte le proprie frustrazioni femminili/ professionali/ familiari/ sociali.
In ogni caso, la Mamma ha un solo scopo: che non è far promuovere il Figlio, o la Figlia. La promozione è lo strumento. Lo scopo vero è giustificare, attraverso la loro promozione, la propria personale autoassoluzione, per le debolezze, le mancanze, i vuoti educativi, i silenzi conniventi, la testa nella sabbia, lo sguardo voltato dall'altra parte, l'ipocrisia, la fragilità, il calabraghismo, il menefreghismo nei confronti dell'unico vero reale compito che compete a una mamma: e_du_ca_re. Che significa condurre fuori, non tenere dentro.

La Mamma si stizzisce quando a bordo non trova connivenza. Quando la si inchioda alle proprie responsabilità. Quando le si fanno presenti le ambiguità, le contraddizioni, le falsità.
"Sì, è vero, mio figlio è mancato a qualche compito, ma, sa, poverino, era così ansioso, mi sono anche arrabbiata, ma ha tanto insistito..."
" Lo so, è così interessata...la sua materia le piace proprio...perché non interviene in classe? Lei mi ha detto che ha paura che gli altri compagni la giudichino una leccapiedi, una secchiona; capirà, a diciotto anni queste cose fanno male..."
"Ah, studiare studia, sta sempre sui libri, non esce mai...come dice? E' assente anche nelle ore di lezione? Ma sarà perché è così stanco, sa, ha gli allenamenti; sì, lo so che ho detto che non esce mai, ma intendevo escluso lo sport..."
"Uh, mia figlia adesso è un po' distratta; capisce, è stata lasciata dal ragazzo, e ora esce per distrarsi...no,niente stravizi, ci mancherebbe, ma sa quante volte l'ho fatta cambiare prima di uscire?, però, capisce, ormai la minigonna la mettono tutti, in discoteca fino alle 4 ci vanno tutti i suoi amici...ma come fa lei a vederla su facebook? Ah, si può?"
"Adesso lei è tutta presa dai test universitari, del resto, come si fa, per entrare bisogna darsi da fare, iniziare fin da subito a competere...come? L'esame di stato? Ma lei non ha certo problemi, no?"

La Mamma mi guarda, ma non vede; mi sente, ma non mi ascolta; chiacchiera, ma non mi parla. Mafiosa omertosa complice dei capricci del Figlio, in perenne adorazione delle sue gesta, di cui conosce solo l'apparenza, ma non la sostanza, si rifiuta di crescere con lui, e, di conseguenza, di farlo crescere. Preferisce tacere, piuttosto che parlare. Toglie i paletti, quei fastidiosi paletti che impediscono un percorso liscio e quieto nella vita, prima ancora che il Figlio se ne accorga. La vita, vista da lassù, è una discesa piacevole, libera, aria fra i capelli e musica techno nelle orecchie.

Dio dei fallimenti, abbi pietà di loro.

sabato 4 maggio 2013

Don Giovanni, Don Chisciotte


 

Ah, la Spagna. Ah, la Mancha, e ah, Siviglia. AH. La cavalleria, il sogno, la bellezza e l'amore.
Tutti intorno a loro, superstiti cavalieri di un sogno, a cavallo dei loro sogni superstiti, tutti intorno e nessuno dentro di loro. E loro al centro del loro mondo, ego_isti, ego_centrici. A costruire ponti in bilico sul delirio, a desiderare vite mai immaginate, a tentare ed essere tentati da ipotesi di peccato mai riconosciuto.
Ah, la vita. Ah, la follia, e ah, l'arte. AH. Leggere, scrivere, vivere. Collezionare scampoli luccicanti di vita, toccarli, tastarli, annusarli, vestirsene e poi farne brandelli buoni per un carnevale di poveri.
Ma quanta grandezza nelle mani di quei sarti di vita, che fabbricano sogni con le parole, che ricamano pizzi sulla pazzia, e guardano il mondo con occhi avidi e innamorati, pronti a divorarlo di baci e straziarlo di illusioni.
Ma quanta tenerezza per gli abitanti del mondo, divorati e straziati, amati e adorati, desiderati, abbandonati, sedotti, e travolti da una vitalità che non conosceranno mai.
Contadine diventate nobildonne, zerline trasformate in cavaliere, leporelli coi vestiti dei loro signori, e ancora nobildonne strapazzate come contadine, cavalieri trafitti, padri disonorati, padroni servitori, giganti mulini, o forse il contrario, non importa. Un mondo, coi suoi abitanti, così soliti, quotidiani, imprecisi, opachi, dimessi, annaspanti nel loro piccolo fango quotidiano di speranze, rancori, meschinità, calcoli e ragioni. Sideralmente lontano da quello dei santi folli, che indicano la luna e guardano le stelle, che seguono le stelle e parlano del loro corpo e dei suoi bi_sogni, moderni, ah, quanto eternamente moderni.
Seducono, loro. Inventano, e incantano, camminano e fuggono. Muoiono, anche, ma risorgono.
Ah, la morte. Ah, la vita, e, ah, la musica. AH. Le parole, la passione, la poesia.
E gli abitanti del mondo, capaci di coglierla senza capirla.
Ah.


domenica 21 aprile 2013

Analgesico

I pezzi della casa cadono.
Ci colpiscono, ci feriscono, e noi camminiamo a fatica fra le macerie delle nostre case.
I ricordi di un anno difficile fanno zoppicare il nostro passo già incerto, fragile.

I pezzi della casa cadono, e noi li guardiamo cadere, sentendo nel cuore che niente sarà più come prima.
Le scelte compiute e pagate da noi, quelle imposte da altri, ma pagate da noi, quelle che avremmo dovuto compiere e invece no.
Arranchiamo, col nostro passo incerto e fragile, e gli occhi guardano intorno, per trovare qualcosa che nemmeno loro sanno bene.
Fa male, tutto questo, tanto. La speranza è una candela che sta per spegnersi, nella tempesta della disillusione.

Fra le macerie, però, troviamo qualcosa. Un pezzo di vita per cui valga la pena camminare, ancora.
Lo prendiamo fra le mani, lo guardiamo, e lo ascoltiamo parlare.
Sono parole antiche, che scendono nel cuore, e lo curano. Amicizia, accudimento, acqua, pane, terra, vento, sincerità, fiducia.
Una musica, impastata di lacrime sorrisi bei pensieri, un analgesico, che allontana la tempesta, o forse la addomestica, e noi, qui in mezzo, fra le macerie della nostra casa, a zoppicare e piangere e sorridere e ricominciare a cercare. A costruire. A scrivere la nostra vita.



lunedì 15 aprile 2013

Miracle workers



Un miracolo inizia sempre per caso.
Non c'è verso, se miracolo deve essere, è dal caso che deve partire, per iniziare il suo viaggio nelle nostre vite.
Così, dall'incrocio delle esistenze, a volte non nascono nodi inestricabili, ostacoli insuperabili, grovigli impossibili, ma possono svilupparsi coincidenze, consonanze, armonie.
Gli sguardi si sorridono, le parole sono calde di vita, le lacrime sono buone, il caso si riempie di senso; l'equilibrio non è più precario, le distanze si accorciano, il tempo si annulla, e la musica fa il resto.
Una voce nel chiuso di una stanza porta atmosfere lontane, spalanca possibilità di futuri, canta di rimpianti e di speranze, si carica di dolcezza ed energia.
Le giovani vite appese alla voce intravvedono un percorso appena suggerito; e tutte, tutte, sono giovani, qui, della giovinezza splendente delle promesse custodite nel cuore e tenute in serbo per questo attimo.

Per un lungo attimo, la musica compie il miracolo. E non è mai per caso,





(grazie, Emma)


La voce del merlo

La primavera si è accorta di noi.
La linea dell'orizzonte tarda a immergersi nel nero della notte, e il respiro dei fiori si fa più visibile, anche per gli affannati umani.
Affacciarsi alla finestra significa tornare a vivere un po' di più, un po' meglio, e tornare a gustare, briciola su briciola, la piccola pagnotta di felicità concessa dagli dèi.
Se poi la pagnotta ha il sapore di un biscotto al cioccolato, assaporato nella sera, il cuore torna bambino. Dai rami degli alberi vicini, lo zirlare di un merlo, sonoramente felice di tornare a gustare le briciole della sua sera.
Condividere il biscotto di vita con un essere volante, sorridergli, e comprendere il misterioso suo zirlare, è il dono di questa sera, al centro esatto di una primavera che si è accorta di noi.

Vorrei poterlo dire a mio padre.

lunedì 1 aprile 2013

Valentina, e la pratolina

Valentina ha la faccia bianca e la maglietta nera.
Valentina ha una madre livida su un letto asettico, che guarda senza vedere, e che respira profondo, quando va bene, e che quando va male ha gli occhi chiusi e un lamento lungo, e roco.
Valentina ha ventun anni e un paio di fratelli più grandi e un padre forte e con gli occhi rossi.
Valentina ha il tempo contato con sua madre. Lo conta senza sapere quanto le resta. E intanto accarezza il volto livido e le mani contratte, fissa le palpebre chiuse e parla coi lamenti rochi.

Valentina è fragile e determinata. In cinque mesi cinque ha visto sua madre crollare, sotto i colpi di un tumore devastante. E intanto si è vista vivere, e studiare, laurearsi, uscire con gli amici, respirare e vestirsi ogni mattina e svestirsi ogni sera, mangiare e bere e baciare e guidare, rispondere al telefono e guardare il sole.

Valentina è fuori dall'hospice dove sua madre sta morendo, ora. Accompagna fuori una persona in visita, la ringrazia, sta per rientrare nel limbo, da dove saluterà sua madre. Ma, prima di entrare, guarda il sole, si ferma, si china.
Una pratolina bianca nel prato verde. Macchia nuova di colore in un pomeriggio di sole inaspettato.
Valentina la coglie, la sfiora, dita bianche sui petali delicati. La prende, la porta con sé.

Poi, entra.


sabato 30 marzo 2013

lettera a Jannacci



Ti scrivo più forte,
ma ti scrivo col cuore,
quel cuore che tu hai curato dentro e fuori.
So che senti.
So che i cuori che hai curato con la tua musica e le tue parole sono molti di più di quelli che hai curato con la medicina. E quanti ne curerai, ancora.
La musicamedicina è la tua vita.
Quando ero piccola, ma proprio piccola, urlavo VENGANCHIONOTTUNO'.
Quando sono diventata più grande, ma non così tanto, modellavo il mio dialetto sul tuo, e canticchiavo ELPURTAVISCARPDELTEEEEENIS.

Quando ho capito che non ci voleva solo l'orecchio, ma anche il cuore, ho scoperto la rude tenerezza, la mediocrità sublime, il disincanto ironico,  il sogno e la poesia dell'alchimia della tua musicamedicina. Voce e piano. Piano e voce, una voce popolare, come ho immaginato fosse la voce di quella Milano che stavo scoprendo, fra la Via Larga e Bovisa.
Una Milano da scoprire, polvere sottile sotto il tappeto di Montenapoleone, ruggine fra le rotaie della Nord, e nebbia sporca, scighèra che vela e nasconde, e aspetta che qualcuno ne scopra la bellezza.
Una Milano ruvida e vera. La Milano di Viola, di  Fo, di  Gaber, di  Brera, di Dalla Mea, di Cochi e Renato, di Celentano.
Ma soprattutto la Milano di Vincenzina, di Giovanni, di Mario, di Armando, della Lina, della Maria, di Silvano. Di me, di tutti noi, che per andare in mezzo alla vita abbiamo sempre avuto bisogno di un'ombrella che ripara la testa.

Ti ho sentito, venti anni fa, a Lecco. La tua faccia no, che non l'ho vista. Troppa gente.
Ma la tua voce sì, che l'ho sentita. La tua voce in un concerto è come quella di Gaber. Penetra nell'anima, arriva al cuore, e lo medica.
Sono tanti, ormai, gli artisti che ho sentito in un concerto, e che sono andati altrove.
La loro voce, però, mi resta dentro.

E comincia a farsi sopportabile l'idea di lasciare questo mondo, se altrove troverò quelle voci, insieme, che cantano e curano dalle fatiche del viaggio.
Tu, ne sono certa, stai trovando quelle voci, dopo l'ultimo tratto di questo viaggio. E nel canto che stai iniziando, e che non finirà più, stai trovando il modo per guarire per sempre.

Grazie.



lunedì 25 febbraio 2013

articolo 48

sono seduta su un banco, i piedi bagnati fradici per la neve che mi è entrata nelle scarpe. eppur bisogna andar.
sono seduta su un banco, e dico ' adesso parliamo di elezioni '.
gli occhi che mi guardano hanno 14, 15 anni al massimo.
qualcuno sussurra nooooo...ancora...
non nel senso che ne abbiamo già parlato. nel senso che chissà quanto ne hanno sentito parlare, in questi giorni. ma forse nessuno ne ha parlato a loro, nell'età di mezzo fra incoscienza e consapevolezza.

e io dico:
'La nostra Costituzione è stata scritta tanti anni fa. Ma chi l'ha scritta ci voleva bene. E voleva che assaporassimo ogni parola, ogni aggettivo. Così, leggiamo con calma questo articolo, il 48.
"Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età . 
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico."
Sì, anche le donne, che fino a quel momento non potevano votare. E dopo decenni in cui il voto era stato vietato, questo aveva il senso di una liberazione totale dalla schiavitù.
Tutti vi diranno, quando compirete 18 anni: 'adesso hai il diritto di voto'.
Invece leggiamo cosa c'è scritto: il suo esercizio è dovere civico.
Dovere. Significa che ogni cittadino, per avere il diritto di criticare chi si è scelto come rappresentante, perché non compie il dovere di servire la società, deve prima votare, e fare il proprio, di dovere. Solo allora potrà essere libero, e avere il diritto di giudicare, ed eventualmente togliere il voto a colui nel quale aveva riposto fiducia.
Ogni volta che lo leggo, mi commuovo. Perché penso a quanti sono morti affinché questo dovere fosse affermato. E perché mi ostino a credere nell'uomo, e nelle sue scelte.
Ricordatevene, quando tra qualche anno andrete a votare."

gli occhi mi guardano, fissano i miei rossi di commozione. e in qualcuno si accende una luce. debole, ma chiara.

non spegnetela, mai.


giovedì 21 febbraio 2013

l'amore arriva

iniziamo da qui



ma parliamo di piedi piantati per terra e testa immersa nel cielo,
l'unico cielo che ci sia dato di vivere, qui, quello dove esiste la musica.

e parliamo di occhi sgranati, di narici dilatate, di orecchie tese, di cuori spalancati sul mistero di suoni che si fanno emozioni.
parliamo di una stanza piena di gente stretta attorno all'incanto della musica, che produce il miracolo di un ritmo corale.
parliamo di una stanza che si apre su una strada di Dublino, o su una scogliera sull'oceano, o su una serie ininterrotta di colline verdi. o su qualunque emozione le nostre vite ci abbiano portati a vivere, tutti insieme o ognuno nell'intimo del proprio cuore.

poi, parliamo della speranza, di una speranza alta, di una speranza di un alto, di un altrove, in cui il nostro grido sia, sarà, è stato ascoltato.
e di una voce che grida alto questo desiderio di amore, di amare.



infine, parliamo di un amore che arriva, che ci trova, che ci cura e ci redime. forse non ci guarisce, ma ci lenisce le ferite della vita, anche quando brucia.
e il corpo che si muove sulla musica vede l'anima uscire da sé, e arrivare fin dove vuole.
fin dove sa.

mercoledì 6 febbraio 2013

Michelangelo indeed could've carved out your features

Mi chiamo Robert, e amo l'Arte. Mi chiamano Bob, e mi amano, perché dicono che io faccia, pensi, sia Arte.
Ma io amo l'Arte, e l'Arte ama me. Io sono il suo umile servo, e ho speso una vita a plasmare parole e musica al suo servizio.
Ho cercato tutta la vita di catturare l'essenza dell'arte, io piccolo e umile, e loro mi hanno fatto diventare superbo e grande.

Arte, perdona loro.
Per questo ora sono qui, davanti a Te. Mi sono coperto il capo, me lo sono cosparso della cenere che diventerò, quando anche io soffierò nel vento come la risposta che cerco da una vita.
E ora sono davanti a Te, e Tu, pietosa, mi guardi.
Non oso nemmeno scoprirmi il viso. Sparire, davanti a Te, è stato sempre il mio fine. Sparire, per fare emergere la Tua potenza. Sparire, per cercare il Tuo volto nel mio.

Così, di fronte a Te, ora, sono più che mai il jolly al Tuo servizio. E, in questa stranza fredda, avverto il calore della Tua pietosa presenza.
E ne ascolto la Musica.

lunedì 4 febbraio 2013

la morte non esiste

E poi c'è la Maria.
Novantanni, occhi di cielo, viso di latte, bocca aperta al sorriso.
E' sola, ma sola davvero. Marito, figli, amici, tutti morti.
Però sorride. 
La Maria beve con gli occhi chiunque arrivi nel suo raggio, e lo illumina, assorbendone la vita.

La Maria passa lunghe ore nel salone, a fare la conta.
Dunque, c'è questo, quella, quell'altra, questo qui, quello là.
Ogni tanto, alla conta manca quello lì, o questa qua.

Ma lei sorride.
'In questo posto, la morte non esiste', dice. 'Succede che ogni tanto, magari di notte, arrivano e ne portano via qualcuno'.
Così, i giorni scivolano via dalle mani e dagli occhi della Maria, ma non riescono a portarle via il sorriso.
E' convinta, la Maria, che qui dentro sia solo vita, quella che passa attraverso i giorni. Così sorride. 
Attorno a lei, questa qui si scioglie la bavetta, ancora, e ancora. Quello là si alza e torna a sedersi, ancora, e ancora. Quella lì scuote la testa, ancora, e ancora. Questo qua urla, ancora, e ancora.
Ma la Maria, ferma sulla sua sedia a rotelle, lascia che gli altri pensino che quella sia morte. Lei, no. Lei, vive. E sorride.

In questo posto, la morte non esiste. Dice.


lunedì 21 gennaio 2013

illogica, ma allegria



vieni qui, giovanna, che ti faccio ascoltare gaber. sì, quello di quella sera a varese, quello che hai cercato sul tubo poi, e scaricato il testo, come si chiamava la canzone?, sì, c'è solo la strada, ti piace tanto, lo so, è come te, anche se hai solo dodiciannemmezzo e sa dio come fai a sapere che quel pezzo è così bello.

vieni qui, ti faccio ascoltare l'illogica allegria, stai qui, siediti qui, sulle mie ginocchia, ecco.
ascoltiamo insieme, ascolta bene il testo, fa niente se non capisci tutto, sono sicura che intuisci, hai le antenne speciali pe rintuire la Bellezza.
siediti qui, ecco.
chiudiamo gli occhi insieme, madre e figlia, testa a testa, ascoltiamo e pensiamo.
eccola, la senti? sì, lo so che non la ascolti solo, ma la senti, la percepisci, l'allegria di cui parla.
sta tutta nel breve respiro che ci accomuna,
nel calore delle nostre mani vicine,
nel tepore che produciamo, in questo pomeriggio di gennaio,
nella lacrima di emozione che dal mio occhio sinistro scende a inumidire la tua guancia destra.

ed ecco, improvvisamente, ci prendiamo il diritto di vivere il presente,
il presente dei nostri corpi stretti abbracciati tesi a comprenderlo.
fuori, il mondo va in rovina, ma tu non credergli.
tu credi all'amore di tua madre, alla fiducia che ci lega, e alla Bellezza della musica.
ed eccola, che sboccia.
è illogica, ma è allegria.
e noi due, qui dentro.