venerdì 25 novembre 2011

alla stagion dei fiori



sono seduta sul tuo letto, papà,
e ti canto questo pezzo,
ricordiamo insieme lo sferisterio, macerata, l'opera, e le serate serene, piene di musica ed estate.

canto, e tu mi segui con gli occhi opachi e lucidi di emozione.
canto, e tu mi dici senza parlare le cose che voglio sentirmi dire.
canto, e tu mi ami come sempre, più di sempre.

la tua opera preferita, cantata in un tardo pomeriggio di una fine vita, da me, che do voce alla tua voce.
lo so, che mi segui. che canti quello che canto.
e insieme capisco che, con te, mi sarà strappata via per sempre una collana di ricordi emozioni esperienze momenti posti facce, che. non. potrò. più. condividere. con. nessuno.

giro la testa, nascondo gli occhi rossi.
poi, li fisso, con coraggio, nei tuoi.
e tu: 'ti voglio bene', mi soffi in faccia.

ci lasceremo alla stagion dei fiori...

mercoledì 16 novembre 2011

i gesti precisi

(foto Roberto Sasso)

i gesti precisi sono quelli che medicano l'anima.
di gesti precisi si ha sempre bisogno, soprattutto in tempi di incertezza, di pressappochismo, di sciatteria.
si ha bisogno di cura, di attenzione, di esattezza.

così, quando Bob Dylan, lunedì scorso, ha infilato il microfono nell'asta con un gesto preciso, l'anima si è portata via quell'immagine per custodirla nella memoria.
uno dice, eddai, infilare il microfono nell'asta, che sarà mai, tutti lo fanno.

se è per questo, tutti gli artisti fanno concerti, cantano e suonano.
ma lunedì scorso Dylan lo ha fatto con un'esattezza, e insieme un'energia, un entusiasmo, una potenza, che hanno lasciato prima stupiti, poi esaltati, infine riconoscenti.

gesti precisi, come quel tocco esatto alla chitarra, come quel suono potente della voce, come quel leggero passo di danza, o quel mezzo sorriso mentre Knopfler ricamava note come se cantasse.

eravamo sopra di loro, proprio sopra il palco. posizione benedetta da chi vuole cogliere anche l'umanità di chi è sul palco, e non solo godere della prestazione.
la prospettiva laterale esalta la perfezione dei gesti, quando ci sono. perché li sa cogliere tutti nella loro intensità, proprio mentre accadono. e Dylan ha il potere di fare accadere le cose con precisione, farsele sbocciare nel breve percorso fra mente e voce, fra mente e mani.

Giorgio, la mattina dopo, impastato di sonno e adrenalina, mi ha detto: 'ho già voglia di tornare a vedere Dylan'.
ah, la nostalgia per quei gesti precisi, di cui abbiamo, tutti, bisogno.

domenica 30 ottobre 2011

quando parla Baricco

"Leggiamo libri perché ci cambiano la vita. Leggiamo libri perché ci conducono alla verità.
Leggiamo libri perché impariamo un sacco di cose.
Leggiamo libri perché ci troviamo i nostri sentimenti.
Ma scriviamo libri, ogni tanto, con un'altra idea.
Scriviamo libri e quel che facciamo è: scegliere tra quanto di più raro c'è nell'universo e di più caro c'è nel nostro animo.
E lo lavoriamo con le mani in un materiale affascinante, che sono la lingua, le parole, il suono delle parole, il respiro della storia. Ci piace lavorarlo con le mani.
E tutto questo solo perché vogliamo testimoniare di che cosa è capace un certo genio umano. E per esprimere in qualche modo il gusto di un maestro. Di quel maestro che in quel momento siamo noi.
Niente più di questo. Ma niente, niente, meno di questo."




ogni tanto, quest'uomo entra nella mia vita. lo fa nei momenti più necessari, e sono tutti connessi a questioni molto private.
quando quest'uomo entra nella mia vita, è perché io gli apro.
quasi mai sono stati i suoi romanzi.
quasi sempre sono state le sue parole, dette in giro, lasciate cadere con apparente nonchalance, eppure così precise, che mi arrivavano dritte a un punto preciso del cuore.

questa volta, quello che quest'uomo dice non è quello che sta dicendo.
questa volta, quello che quest'uomo dice è quello che sto dicendo io, anche senza parlare.
quello che voglio, di cui ho bisogno, respiro di un lampo in un momento di buio.

domenica 2 ottobre 2011

le chic et le charme



la piccola donna saliva le scale della sua casa, e fra un pianerottolo e l'altro faceva oscillare la borsa di carta con dentro un libro, e dentro il libro, su una pagina bianca, due parole e una firma.

la piccola donna saliva le scale, ma non faceva fatica.
aveva appena parlato a Paoloconte. dopo una trentina d'anni di ascolti e sogni, dopo una serie di concerti, l'ultimo dei quali il giorno prima, dopo aver intrecciato i suoi ricordi più intimi alle sue note, si era fatta largo in mezzo alla timidezza e alla gente in cerca di una foto improbabile, e gli aveva porto il libro, piantandogli gli occhi negli occhi e scoprendoli sorprendentemente chiari e giovani.
'la ascolto da quando ho orecchie e cuore...grazie, davvero'.
e Paoloconte, nel mezzo della timidezza e della gente, le aveva risposto: 'no, grazie a lei', con un sorriso che scivolava lungo tutto il pentagramma della sua vita, la sua e quella della piccola donna.

la piccola donna apriva la porta del suo appartamento di periferia, così lontano dalle atmosfere esotiche del Mocambo, così vicino a quelle di Stradella. era domenica sera, appunto.
ma nel cuore risuonava l'eco del concerto impeccabile della sera prima.
ma nel cuore risentiva le parole della sua filosofia


ma nel cuore brillavano le lacrime di emozione su questo pezzo



due parole, una firma.
la piccola donna sorrideva. e si sentiva grande.

martedì 13 settembre 2011

primogiorno

non correre.
lo so che non puoi sentirmi, e non ti sei neanche voltato a guardare se ti stessi guardando.
tu, che, col tuo zaino delle medie già zeppo di libri del liceo, corri a prendere il bus, il primo bus scolastico della tua vita.
tu, che, col tuo sorriso indistruttibile, mi hai detto 'ho già voglia di conoscere...fatti non foste a viver come bruti, no?'.

però non correre.
lascia che imprima nella mente l'immagine di te, figurina blu contro il sole che sta sorgendo dietro alla collina, di te, giovane ragazzo teso a 'prendereilbus', unica tua preoccupazione, da oggi, per sei mattine su sette, per cinque anni.

e, quando l'avrò impressa, lascia che asciughi una lacrima.
che, sai, le mamme la mattina sono tutte un po' psicolabili.
poi, scompari pure.

sabato 10 settembre 2011

undici nove

Foglio, penna, tavolo.
Torta, pasticcini, quante bottiglie di bibite? Ci vorranno anche dei salatini, delle pizzette, dopo tutto è una festa per bambini, anche se tu hai solo un anno, ci sono tutti gli amichetti di tuo fratello, no?
E i palloncini colorati? Certo…poi devo prendere il festone dell’anno scorso, così addobbiamo il salotto.
Piccola Giovanna, quanto futuro hai davanti. La vita sembra leggera, soffice, in questo pomeriggio di metà settembre e di inizio scuole.
Suona il telefono. E’ tuo padre. “Accendi la televisione.” – “Giornata pesante in ufficio, eh? Cosa fate adesso, vi mettete a guardare la tivvù?” – “Accendi la televisione, Laura.”
Il tono è serio. Quasi allarmato. Mi allarmo anch’io, di conseguenza.
“Cosa c’è? Perché devo guardare la televisione adesso?”
Ma intanto ho acceso. Uno, due, tre, quattro canali. Danno tutti lo stesso programma. Le Torri Gemelle, tutte e due, belle, ce le avevo anche su un poster, nella mia cameretta di adolescente, quando andare in America per noi significava andare a New York, Mecca occidentale di giovani innamorati della cultura e della musica beat. Warhol, Lou Reed, Patti Smith, Greenwich Village, e poi Martin Luther King, Kennedy, il sogno.
Le Torri Gemelle, però, oggi non sono come erano sul poster. Esce del fumo. Sono ferite.
“Ma cos’è successo? Una fuga di gas? Un incidente?” – “No. Due aerei. Addosso. Apposta. Un attentato. E’ la guerra, Laura.”
Una guerra in America. Mai successo dai tempi di quella d’indipendenza. L’avevo vista solo in un film, ‘Independence day”, ma lì era l’attacco di alieni. Ed era un film.
Quello che vedo ora è reale. Eppure così magnetico. Perché passa attraverso un piccolo schermo, perché supera ogni immaginazione, perché mi costa un enorme sforzo pensare all’odore di corpi bruciati, al suono delle urla di terrore, alla polvere che si starà spargendo ovunque, al gusto acre che sentiranno in bocca quegli uomini e quelle donne che posso solo vedere. La privazione di quattro sensi su cinque mi paralizza. Capisco cosa sia successo solo quando vedo una torre crollare, e quello che sembrava un fermo immagine improvvisamente si anima. I commenti, solo allora, prendono un senso compiuto. Perché realizzo che, insieme a quella torre, dentro a quella torre, stanno crollando centinaia di vite, e con esse anche un pezzo del sogno americano, anche del mio.
Istintivamente mi stringo a te, piccola Giovanna dal futuro non più così tanto leggero. E la lista che stavo stilando mi restituisce l’incommensurabile sensazione di essere una privilegiata, ad essere qui, con te, al sicuro, in questo ‘sicuro’ così precario e fragile, davanti a uno schermo – specchio, che riflette tutta l’immensa fragilità dell’uomo.

martedì 6 settembre 2011

malfermo_11

c'è anche la giovanna, detta gianna.
ma lei vorrebbe che la si chiamasse giovanna, e così si chiama.
giovanna è elegante, fine, educata.
dà del lei a tutti. chiama 'signora', o 'signorina' anche le infermiere e le inservienti, che invece le danno del tu.
i profondi occhi chiari, la pelle trasparente, il profilo esile.
profumo di lavanda e di lettere chiuse in un cassetto.
giovanna porta per il giardino uno sguardo rassegnato, come di fiore con qualche petalo già caduto.
lo sguardo torna a vivere quando arriva la figlia.
ah, la figlia.
bruna, prorompente, ricca.
muscolosa, appariscente, forte.
lei dà del tu a tutti, lei.
resta con la madre un quarto d'ora, parlando continuamente.
poi se ne va.
deve andare in palestra, dice giovanna.
e lo sguardo perde un petalo, ancora uno.
ma la collana d'agata brilla, ancora.

domenica 4 settembre 2011

Brucetellers, o della musica che diventa amore


Comunicato stampa
Esce Brucetellers, libro pieno di emozioni e solidarietà nel segno di Bruce Springsteen

Racconti, foto e disegni di 90 autori tra giornalisti, musicisti e semplici fan dell’artista americano. Il ricavato andrà in beneficenza per i bambini dell’ospedale pediatrico Meyer. Tra le adesioni quelle di Vini Lopez, Massimo Bubola, Cristina Donà, Graziano Romani e Marino Severini.

Pistoia, 2 settembre 2011: tutto è nato per ricordare un giovane amico, fan di Bruce Springsteen e appassionato istruttore di basket per bambini. Dall’idea ai fatti: è così che un gruppo di compagni di concerti di Giacomo Melani, scomparso nel 2010 a poco più di 30 anni, si sono messi in moto contattando il vasto ed eterogeneo mondo degli springsteeniani d’Italia. All’appello hanno risposto in 90 tra giornalisti, scrittori, musicisti, disegnatori, fotografi, liutai, grafologi, collezionisti e semplici fan: tutti con in comune la passione per Bruce, l’esperienza di svariate dozzine di concerti in giro per il mondo e un patrimonio di storie e aneddoti tutti legati al rocker di Freehold. Ne è scaturita una raccolta di storie che ha trovato ospitalità nella nuova collana editoriale con cui l’Associazione sportiva e culturale Silvano Fedi di Pistoia vuole celebrare il quarantennale di attività con il patrocinio delle istituzioni cittadine pistoiesi.

Brucetellers (256 pagine, Edizioni Nuove Esperienze) uscirà il prossimo 22 ottobre e il ricavato sarà devoluto in beneficenza per la Fondazione dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. L’uscita del volume avverrà in concomitanza con una serata musicale che si terrà al Piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, per la partecipazione di numerosi artisti del panorama nazionale.

Tra le firme, quella di Vini Lopez (primo batterista di Springsteen), Massimo Bubola, Cristina Donà, Marino Severini (Gang), Graziano Romani, Ermanno Labianca, Stefano Mannucci, Marco Denti, Leonardo Colombati, Gianluca Morozzi, Mauro Zambellini e tanti altri, che hanno accettato di prestare gratuitamente la loro opera abbracciando lo spirito benefico e il comune senso di appartenenza a quella patria trasversale di seguaci del ‘Jersey Devil’, un artista che si è sempre distinto per sensibilità e altruismo.

Il volume esce a poca distanza di tempo dalla scomparsa di Clarence Clemons, lo storico sassofonista della E-Street Band, al quale i curatori del libro hanno voluto dedicare la quarta di copertina.

Web: http://www.facebook.com/brucetellers - http://brucetellers.wordpress.com/

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bello, pensare che, fra quelle novanta firme, c'è anche la mia.

giovedì 1 settembre 2011

io forse lo so

un poeta stasera ha chiesto: 'perché se rileggo anche tre volte il libro di un poeta, o se ascolto cinque volte un pezzo musicale, trovo sempre sensazioni nuove?'.
io forse lo so.
credo sia perché il pezzo o il libro in sé non cambiano.
siamo noi a cambiare. ad arricchire di nuove sfumature il significato del testo.
siamo noi i veri artisti.
siamo noi gli artefici indispensabili dell'eternità di un'opera d'arte.
l'opera non cambia. cambia la vita che l'opera riflette in sé. cambiamo noi che troviamo in essa l'eco di ciò che siamo appena stati, o che saremo di lì a poco, o che vorremo essere. indovini di noi stessi, sondiamo, nelle pieghe della bellezza altrui, la nostra stessa bellezza.

venerdì 5 agosto 2011

fuori contesto

già una palma in mezzo alla valle del san gottardo, dimmi se si può.











e poi, un balcone al posto del palco, figurarsi.














e siamo in svizzera, e dei ragazzi, ragazzi, eh?, mica sessantenni nostalgici, sventolano fino allo sfinimento una bandiera rossa, ma proprio di quelle dell'unione sovietica, che forse neanche a mosca ce l'hanno più così.



e poi inizia la musica. che sistema ogni cosa, anche quelle fuori contesto.

ma stasera è tutto più diretto, anche la musica.
saranno i luf che scaldano il clima già ben acceso.
saranno i gang che trascinano cuori e gambe e voci.
sarà l'aria del gottardo.
sarà la sciura della buvette (sic) che mesce ogni genere di liquido alcolico, cosicché tutti si ritrovano con un bicchiere in mano sempre pieno di liquidi diversi.
saranno le luganighette e il collo di maiale (sic) alla griglia.
sarà l'alain delon de biasca che barcolla con le mani arpionate sulle tette della sua accompagnatrice.
sarà la palma che taglia in due la visuale del palcobalcone.


fatto sta che a un certo punto il local hero, mimando un miracolo, abbandona la carrozzella e si fa trascinare fino alla batteria, e la suona coi gang.

fatto sta che a un certo punto cerno, il cantante dei vad vuc, che come tutti gli artisti veri è lì giusto per ascoltare, bere e imparare (non è dato sapere in quale ordine) sale sul palco pure lui, e canta con marino severini.











fatto sta che a un certo punto l'organizzatore della serata invita sul palco tutti i collaboratori a cantare, e la situazione sembra sfuggire di mano, ma invece tutti ce l'hanno in pugno.
chiuso, per l'occasione.
tanto chiuso il pugno, quanto aperti sono i sorrisi.







fatto sta che questa si candida a miglior serata dell'estate, con buona pace di frank&daniele, di dan, dei chieftains e perfino di lyle.

(e grazie a franco e baio, miei impagabili compagni...;-))

(foto ©baio)

mercoledì 3 agosto 2011

malfermo_10

c'è anche margherita. la mamma.
troneggia dall'alto della sua sedia a rotelle, appesa al tubo del respiratore, eppure indomita e battagliera.
mamma di tre figli ormai in età di pensione, nonna di tre nipoti ormai adulti, amica di tre signore ormai anziane, suocera di tre nuore schiacciate da un confronto impossibile.
mamma margherita sembra seduta, sembra immobile, sembra debole. in realtà si muove, valuta, giudica, sceglie ogni giorno.
mamma margherita si fa mettere fiori in camera e rose sui vestiti, collane al collo e bigodini in testa, non vuole occhiali e tifa inter.
mamma marcgherita è un fiore, e le api_figli_nipoti_amiche_nuore le ronzano attorno, suggendo il nettare della sua energia, eppure lasciandola intatta.

mamma margherita ha novanterotti anni, ma sente la vita passare fra le dita sottili, e l'afferra senza paura. lottando e scegliendo, ogni ora, finché le ore si fermeranno.

martedì 19 luglio 2011

malfermo_9

e poi c'è don bambino. bambino si fa per dire, 91 anni e un parkinson che gli fa tremare la voce e l'ostia e il calice, quando li solleva.
don bambino compare il sabato pomeriggio, per celebrare la messa, e dice tre prediche: una all'inizio, una quando deve, e una alla fine, così gli ospiti sono impegnati per un'ora buona.

don bambino non dà la comunione, perché ci metterebbe altre due ore. e così la distribuiscono i suoi volontari. uno dirige il coro, una fa il karaoke su 'resta con noi', uno spezzetta l'ostia consacrata in minimi pezzi, così che alla fine ne restano sempre dieci, e allora deve rifare il giro, perché 'non si può lasciare lì l'ostia consacrata', e gli ospiti riaprono la bocca, quieti, docili, come davanti a un mistero.

don bambino parla di aldilà, di provvidenza, fa recitare sempre l'avemaria alla fine della messa, ed è forse restato l'unico ad usare ancora il termine 'tribolazioni'. ma sulla sua bocca senzatempo ci sta bene.
don bambino parla con un filo di voce; così, nonostante il microfono, e nonostante siano messi in prima fila, quelli sordi non sentono nulla di quello che dice. ma conoscono a memoria la loro fede. e si fidano.
don bambino compare ogni sabato pomeriggio. e le teste canute si inchinano, un po' addormentandosi, un po' raccogliendosi, per l'unico tempo sensato della loro settimana.

don bambino anticipa per loro, così, con la voce e le meni tremanti, l'unico paradiso concesso in questo mondo.

domenica 10 luglio 2011

cenerentola nel castello



cenerentola ha in mano un foglio, su cui c'è scritto il suo nome.
un invito alla festa al castello.
lei desiderava andarci da mesi, ma non sapeva se avrebbe potuto.
c'era una festa speciale, al castello. un menestrello venuto da lontano, e tanti amici che sarebbero accorsi a sentire le sue ballate, amici che non vedeva da mesi, amici che non aveva neanche mai visto, ma di cui aveva letto il cuore per anni.


l'invito l'aveva resa felice, e aveva sognato quel momento, come si sogna da bambini, con l'abbandono e la fiducia dei bambini.
col foglio in mano, entra nella corte.
ci sono dame e cavalieri, ognuno con la maglia della sua tribù: dal minnesota, dal new jersey, dal canada, da correggio.
lei no, non ha voluto. una semplice maglia nera, sopra una maglia bianca, i non colori che ricapitolano tutti gli altri, come una lavagna su cui scrivere le emozioni.

la accompagna il suo cavaliere, quello che l'ha liberata dalla torre, anni fa, e che è sempre al suo fianco. e insieme incontrano visi sorrisi strette di mano abbracci baci, mentre la luce docile scivola via dalla corte, e gli insetti si addormentano.

l'attesa è lunga lunga lunga, come le attese dei bambini, impazienti e frementi.
ma, quando il menestrello sale sul palco, inizia la festa.
la musica è illuminata da luci fioche, per non distrarre l'ascolto.
la voce è arrochita, per esaltare le parole.
i suonatori partecipano alla festa, con la sapienza antica dei maestri.
la fisarmonica e il violino colorano di ruggine il nero lucidissimo delle chitarre, mentre tamburi e bassi scuotono i cuori, tanto che neanche le armature dei cavalieri possono nulla contro l'impatto del ritmo, e anche i più coriacei devono cedere all'entusiasmo, al dèmone buono che penetra nei cuori, e li scuote fin nel profondo.

cenerentola trova il tempo per versare una lacrima felice, appoggiata a un albero, mentre il menestrello intona la sua canzone più appropriata, per quella sera:




la corte tace, stupefatta.
lampi lontani segnano il passo del tempo.
anche la pioggia se ne sta fuori dalla magia, rispettosa, perché il miracolo della Bellezza non sia disturbato.

il signore del castello attraversa la corte, testa bassa e sigaro fra le labbra.
non ha tempo per ascoltare. ma sa che i grazie che gli sono stati rivolti sono tutti sinceri.
e tanto gli basta.


domenica 19 giugno 2011

aria

e quando il respiro si fermerà,
quando l'aria non passerà più nei miei polmoni,
ma resterà lì, sospesa, senza diventare respiro, suono, parole,
quando il tempo non batterà più nessun ritmo
e l'atmosfera si svuoterà di ossigeno e idrogeno e elio
e tutto il pulviscolo in perenne moto perderà il suo peso,
quando accadrà,
ecco,
fatemi sentire l'aria vibrare ancora un'ultima volta di queste note



e quando i miei figli, respirando l'aria al posto mio,
ascolteranno queste note



penseranno a una sera d'estate, quando hanno respirato la stessa aria di Torino insieme a me,
e hanno ascoltato l'aria passare attraverso il sax di Clarence,
e hanno capito cosa significhino l'amicizia, l'armonia, e forse un po' anche la felicità.

domenica 12 giugno 2011

power




quella sera, giorgio, c'era un'atmosfera sospesa.
il sole era stato nascosto quasi tutto il giorno, ma al tramonto era uscito, come a ricordare la sua presenza.
tu mi avevi accompagnata al seggio, nel primo pomeriggio, e la presidente ti aveva fatto vedere le schede, tutte colorate. 'ho voglia di votare anche io, mamma...dopotutto è il mio futuro!', mi avevi detto.
e io mi ero sentita felice, per avere vicino te, un figlio così sensibile, impegnato, consapevole, pur nei suoi tredici anni.
quando siamo usciti dal seggio, ricordi?, soffiava il vento. sembrava mi ringraziasse di avergli detto sì.

quella sera, giorgio, suonavi questa


e c'era un'atmosfera sospesa.
nessuno sapeva se i cinici ce l'avrebbero fatta anche quella volta, se il futuro si sarebbe sgretolato, oppure se il vento avrebbe soffiato via la polvere di tutti quegli anni, come aveva fatto in qualche città, due settimane prima.

tu suonavi, io avevo negli occhi i colori di quelle schede, e il volto di giovanna che, nel tardo pomeriggio, si era seduta per terra in una piazza vicino al lago con cento bambini,a suonare la chitarra e sorridere; e mi ero sentita così abissalmente vecchia, e viva, grazie a quelle quattro croci su quei quattro sì, lanciati nel futuro a proteggere voi, noi, la giustizia.

e allora, allora, con la finestra aperta a respirare il vento, mi ero seduta al pc, e avevo scritto.
per appendere al chiodo di un ricordo l'atmosfera sospesa di quella sera.

sabato 11 giugno 2011

buonafortuna



c'è sempre qualcosa di definitivo nell'ultimo giorno di scuola. l'abbandono della nave da parte dei clandestini. i corridoi che un momento prima vivono di volti voci passi respiri, e che un momento dopo si afflosciano su se stessi, troppo grandi per contenere così poca vita. la campanella che suona inutile, le carte che diventano scartoffie, i libri esausti dalle pagine ciancicate e dalle copertine rugose.

quest'anno, si chiudono tre cicli. la quinta elementare, l'amore incondizionato per la maestra, per il gruppo di compagni, l'energia di corpicini lanciati verso la scoperta di sé e del mondo.
la terza media, gli ormoni che cavalcano un tempo incerto e tempestoso, dove il conflitto con gli altri diventa misura per la costruzione dei propri confini.
l'ultimo anno del liceo, giovani adulti solo in parte consapevoli del proprio posto nel mondo, eppure già pronti per salpare, su una nave finalmente tutta loro.

e in mezzo, le lacrime. lacrime per i piccoli, per i ragazzini, per i giovani. lacrime di rimpianto, di malinconia, di ricordi appiccicati addosso, come un anticipo di nostalgia, come un presentimento di tempo perduto, tanto inconsapevole quanto pungente.
e in mezzo, le parole. oppure gli sguardi, gli abbracci, le dediche su diari o libri, gesti minimi, impreziositi dall'unicità del momento.
ma soprattutto, le facce. pallide per lo sforzo di maneggiare con cura un aggeggio delicato e complicato: il presente che genera ricordi.

e si vive di conclusioni.l'inizio non è mai così certo. la fine sì, che si conosce bene.
è qualche lacrima mischiata a qualche fetta di torta, è un violino e una chitarra che suonano de andré in una palestra, sono ottanta ragazzi su un palco a stupire e stupirsi, sono piccoli cantanti e poeti, e sguardi adulti e giovani che si incrociano guardando la stessa rotta.
si vive di finali di partita. di abbandoni e partenze. in attesa del prossimo arrivo.

martedì 17 maggio 2011

no pasaràn



e no, no pasaràn.
la banda di cinici, che di solito scorrazza per la città, stasera tace, rintanata nei suoi lounge bar, nelle discocateche, nei posti che contano per la gente che sa solo contare e non incantarsi.

e stasera è una sera benedetta dai cuori semplici, da chi aspetta paziente, da anni, e intanto resiste, a volte silenzioso, altre volte arrabbiato, sempre tenace.
c'è un posto, in questa città, in cui i cuori semplici, stasera, trovano chi canta per loro.

billy bragg parla in un inglese comprensibile, e quello che dice è condivisibile.
billy bragg ha le tempie spolverate dall'argento del tempo, e gli occhi accarezzati dalla rete degli anni.
billy bragg ha un paio di chitarre che suonano gli stessi accordi, e una voce che sa di nebbia alle cinque di mattina in un sobborgo inglese, che sa di turni di notte in un'acciaieria, che sa di urla in un megafono durante una manifestazione.
billy bragg parla, racconta la sua vita, la sua epifania durante un concerto dei clash, le sue lotte politiche, civili, umane.


billy bragg ironizza su sé, su noi, sulla sua inghilterra e sulla nostra italia. e dice che il peggior nemico dell'umanità è il cinismo annidato in ciascuno di noi, che rischia di impedirci di prenderci cura della cosa comune.

ma stasera la banda di cinici tace.
e cantiamo noi, insieme a lui, che canta di dolore, amore, forza, resistenza, dolcezza. con la lucidità e il trasporto di chi ha fatto della vita, tutta la vita, tutta intera, un mezzo per portare avanti, sempre avanti, il testimone, e consegnarlo al pubblico, perché la musica non può cambiare il mondo, ma è il pubblico, dice lui, che può cambiare il mondo, ispirato dalla musica.



e ci guardiamo attorno, e vediamo facce illuminate dalla stessa speranza. stasera, qui, ci sentiamo protetti, sodali, simili. pronti per guardare dritto negli occhi i lupi, quando usciranno dalle discocateche e vorranno tornare ad azzannare.

ma c'è un ragazzino, in penultima fila, che stasera, per la prima volta nella sua vita, alza il suo pugno chiuso, con una luce nuova nello sguardo.
e billy bragg canta soprattutto per lui, stasera.
perché, come canta lui, qualche volta a un uomo adulto occorre tanto tempo per capire quello che un bambino impara in una sola notte.


mercoledì 11 maggio 2011

forget your weakness



un marciapiede a camden town e uno stereo che suona
una festa a barcellona e le mani levate in alto
un paio di occhi a milano e una chitarra con quegli accordi

un'autoradio e dentro una musicassetta dal nastro allentato
una notte di esami e la testa a quaranta chilometri circa
un'estate reggae in tutti i sensi

una bandiera verdeneragialla
una nostalgia per spiagge mai viste
un profumo di fumo

una sequenza di parole che in_cantavano, perché cantavano i nostri sogni
una redenzione intravista in mezzo all'armonia
una spiritualità radicale e ancestrale

il modo più dolce mai conosciuto di lottare
il modo più forte mai visuto di dimenticare le nostre debolezze
il modo più solare mai conosciuto per entrare in contatto con il buio dell'anima.

e l'amore, l'amore, l'amore.

lunedì 9 maggio 2011

mnemosine



e metti gli occhiali, e togli gli occhiali, e regola l'amplifon, e la dentiera che balla.
stasera non ci sto, proprio no. tolgo occhiali, amplifon e dentiera.
stasera non leggo, non ascolto, non mangio neppure, tié.
sistemando le mie cose, mi sono trovata fra le mani un vecchio biglietto. un concerto.
era il 7 maggio 2011, figurarsi, 30 anni fa.
e io, che non ci vedo né ci sento quasi più, devo mangiare cibo triturato, ho anche il pannolone, e faccio fatica a camminare, mi ritrovo con un regalo di cui ogni tanto non so cosa farmene.
la memoria.
anzi, il ricordo.
che, come ho letto non so più dove, è riportare al cuore le cose.


mi ricordo bene quel biglietto, quel concerto.
mi ricordo bene la prua della nave su cui vinicio ogni tanto saliva, un fitzcarraldo intrepido, nel portare una nave, o forse l'oceano intero, con tutti gli oceani del mondo, in un teatro.
mi ricordo l'intreccio delle sartie e delle luci, che non capivo più dove finissero le trame delle sartie e dove iniziassero i riflessi delle luci.
mi ricordo l'in_canto di un canto sgraziato eppure dolcissimo, con le sue deliziose stonature, i suoi umani smemoramenti, gli occhi a ruotare attorno, un capitano coraggioso che tiene la barra a dritta durante la tempesta.

mi ricordo il monologo di achab fuso insieme con un passo della bibbia in cui si parla del re achab, e la luce che brilla sul cimiero del pelide, e la testa di vinicio rivolta in alto, a cercare le pleiadi, mentre avanza da solo verso il monte del purgatorio.

mi ricordo che pensavo che sarebbe stato difficile portare i suoni di quel disco difficile in teatro, e invece mi meravigliavo di quanto stesse sembrando tutto così facile, ridurre all'osso la balena oltremisura di quel suono, affidandosi ai remi esperti di musicisti di vaglia.


e in questa tanto picciola vigilia dei miei sensi che è del rimanente, in questa mia sera, il ricordo è balsamo che cura le ferite di una vita.
i volti di chi ho amato e che sono andati avanti.
l'energia dispersa in quanto ho mancato.
quello che ho intravisto e che non avrò, non ancora, finché sarò qui.

mi ricordo, e mi tengo strette al cuore, le lacrime che silenziose scendevano mentre ascoltavo 'le sirene'. avevo appena compiuto cinquant'anni, allora. e le lacrime scendevano, accompagnando la me stessa di trent'anni prima, nel suo congedo da chi ero stata, senza avere la minima idea di chi fossi, o sarei stata.
sul crinale di quell'età, vinicio cantava tutta la mia vita, conoscendomi nel profondo, in un modo che ancor m'offende, con una nettezza che mi sconcertava. un canto incessante, insopportabile. eppure dolcissimo.

mi ricordo che vinicio si era allontanato con le mani sugli orecchi, come a volermi suggerire di non fermarmi più ad ascoltare il canto delle sirene, di non fermarmi più e basta, di non farmi paralizzare dai ricordi del passato, ma di vivere in equilibrio fra ricordo e nostalgia, più che potevo.

è quello che ho fatto, da allora.

il ricordo di chi ero io, chi ero io, si intreccia al rimpianto di chi sono io, chi sono io. si intreccia alla nostalgia del ritorno a quell'uno a cui tutti apparteniamo, che ci fa balenare la bellezza per pochi minuti, o per qualche ora, come fosse per sempre, e ci lascia il resto del tempo a inseguirla.

eppure, grazie al ricordo di quella sera, in questa sera, senza amplifon né occhiali, ci sento e ci vedo meglio.


mercoledì 27 aprile 2011

pathei mathos

venghino, signori, venghino.

la balena oltremisura è arrivata.

ci possiamo stare dentro tutti, ma soprattutto quelli che fanno della loro vita un viaggio incessante, anche stando fermi, lottando, semplicemente, contro l'abitudine.



venghino, signori, la balena ci porta ovunque con sé, facendoci posto dentro il suo ventre smisurato, come tanti pinocchio fuggiti dal paese dei balocchi, come tanti giona in attesa dell'lluminazione.

venghino, signori. condizione per starci bene è arrendersi alla balena, senza lottare più, ché a lottare contro chi è inevitabilmente più grande, sofferente e saggio di noi si perde sempre.



piuttosto, da dentro, da dove siamo, volgiamo attorno lo sguardo. e torniamo a cercare. stavolta cerchiamo l'enorme scheletro, bianco e polito, struttura insospettabile, attorno a cui è cresciuta la massa smisurata dei muscoli e del grasso. e lo scopriamo così forte, nella sua apparente fragilità.ogni pezzo d'osso, è una parola, una nota, un pensiero, divenuto suono divenuto canto.



e il canto in_canta, e celebra da dentro, con la musica e la poesia dei millenni, l'eterno andare oltremisura dell'uomo.

la sua sete di conoscenza valorosa, di virtù conoscitiva.

lo strazio per un passato irrecuperabile.

lo sfinimento delle infinite attese, migliori della realtà.

lo stordimento dei sensi.

l'hybris e la sottomissione a un dio inconcepibile eppure presente.

la tensione verso l'immortalità con la sola arma concessa, l'arte.

il mito quotidiano dei viandanti, ovunque protetti da chi guarda ma non può farci niente.

le sensazioni e le riflessioni dell'uomo, che dal mito hanno preso forma e nome, ma che prendono forma e nome ogni giorno nuovi: e si chiamano per sempre calipso, sirene, polifemo, ma che possono chiamarsi col nome dei nostri amori, delle nostre illusioni, del nostro cercare. purché noi riusciamo ad essere tanti saffo, dante, omero, céline, melville, conrad, che restituiscano all'eternità l'oggetto dei nostri in_canti.



siamo tutti ulissidi. ma stavolta abbiamo capito che il nostro viaggio, sospeso fra terra e cielo, si è perso e trovato nel ventre di una balena che tutto comprende, perché tutto ha sofferto.




( poi, il nostro postmoderno suggerirà infinite connessioni, leggere o profonde, pesanti o superficiali. ma la bellezza non sfuggirà, neanche così.)

domenica 3 aprile 2011

nell'imminenza dei cinquant'anni

Il pensiero m'insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.

Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...

Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.

E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.
(mario luzi)


non fu vano.
non furono vani le risate, i pianti, le attese, i sospiri, gli abbracci, gli schiaffi, le parole e i pensieri.
gli incontri per sempre o per poco, le persone da sempre o da poco, la musica, i libri, i fotogrammi dei film, le strette di mano e le lacrime.

consapevolezza. consapevolezza. scriverei questa parola tutta questa notte. questa lunga notte, che precede l'ultimo giorno dei miei quarantanni.
consapevolezza che vita è fiato che si sperde. che come è venuta, passa. che occorre, bisogna, ci tocca, dobbiamo, e insomma, vogliamo, viverla tutta così, senza chiedere altro, con la piena consapevolezza che non la capiremo mai del tutto.
scollino, da domani scollino. e se dura è stata la salita, che mi sia dolce la discesa, senza accelerare troppo, senza sbilanciarmi, senza aver fretta di arrivare chissà poi dove.
gustando il paesaggio semplice e immenso di questa discesa, splendente come cinque brillanti incastonati in un anello, da portare fino alla fine.

sabato 19 marzo 2011

il sale sui solchi

Quando c’è ghiaccio su una strada, spargere il sale è un gesto d’amore.
Quando c’è una ferita sulla pelle, spargere il sale è violenza.
Quando c’è l’acqua nella pentola, spargere il sale è saggezza.
Ma quando ci sono orecchie per ascoltare e sentire, il sale può essere tutto questo.
Amore, violenza, saggezza.
Yanez è intriso d’amore. Gronda amore da tutti i solchi, e andrebbe proprio messo su vinile, per poterli vedere di persona, quei solchi, e vederli che si sfrisano giorno dopo giorno, rughe sulla superficie come sulle nostre facce.
L’amore per la vita, che esplode nel carnevale, metafora di un’esistenza passata a metter su una maschera, senza toglierla neanche con se stessi.
L’amore per l’eterno gioco dell’osteria, di qualunque latitudine, carte zanzare balere vino birra e canzoni, sguardi incrociati, tatuaggi, infradito, chiacchiere e giudizi tagliati col fulcinitt.
L’amore per la musica, quella che si sposa una volta nella vita e non si può più tradire, perché neanche lei tradirà mai.
L’amore per un uomo o per una donna, perché possono passare i loro nomi, ma non la sostanza, l’essenza, fatta di attese e desideri e silenzi e sacrifici mai detti, che pesano, e insieme fanno sentire leggeri.
E l’amore per la natura, che è fiore onda vento cipresso, e mai la totalità, ma sempre il particolare, perché noi uomini sappiamo amare l’universale solo attraverso il particolare.



Yanez è intriso di violenza, anche. Parole e suoni che lacerano il cuore, evocano ricordi mai sopiti, rimpianti con cui non abbiamo mai fatto pace davvero.
La violenza della guerra, di tutte le guerre, cantate da chi scrive con le due mani per chi le mani le ha perse, o per chi ha perso la vita. E non si sa quale sia la scelta migliore.
La violenza dei tradimenti, vissuti o subiti, immaginati o compiuti.
La violenza di giorni e notti passati a chiedersi se la nostra vita sarebbe stata migliore, se non fossimo saliti su quell’onda, a cavalcarla e lasciarci spruzzare della sua acquadolce.
E la violenza di una polaroid che sbiadisce, insieme all’urgenza di fissare con l'acido speciale delle parole e delle lacrime quelle immagini.



Ma Yanez è intriso di saggezza. Quella di un uomo che si avvicina ai cinquant’anni della sua vita cercando ancora di capirla con lo stupore e la trepidazione di un ragazzo.
La saggezza di un profondo ascoltatore, che scende nell’intimo di chi avvicina per rubargli i segreti e condividerli.
La saggezza di un asceta epicureo, che mescola la capacità di cogliere il respiro del vento allo struggimento per non riuscire a liberare del tutto il proprio spirito dalle urgenze della vita.
La saggezza di un viaggiatore della vita dal bagaglio leggero e dal passo pesante, che sa quando e soprattutto dove fermarsi, nell’abitacolo di un camper come sul tetto di un ripostiglio, nei cessi di un autogrill come nell’anticamera di un potente, per tenere stretta una polaroid che gli ricorda da dove viene, per indicargli dove andrà.





Logico, che con questo disco ci si senta amati, violentati, accuditi e scossi.
Logico, che i suoni si fondano alle parole.
Logico, che uno strato della pelle si strappi. Ma fa un gran bene.

lunedì 14 febbraio 2011

ernesto de pascale

la rete impiglia. la rete è virtuale. così, capita che le persone ci siano anche quando non ci sono più. che la loro traccia resti anche quando se ne sono andate in un'altra dimensione, in cui la rete onnipotente non riesce ad entrare.

ernesto de pascale è ovunque, in rete. il suo sito porta ancora i suoi testi. il più toccante, scritto alla fine del 2010, si chiude con una nota di brusca felicità, come è nel suo stile, toscano fino in fondo:

"Grazie a chi ci ha creduto e a chi ci crede
Vi auguro gioia e felicità ma anche una bella dose di culo.
Tornate ad ascoltare la radio
Ciao 2011"

quando avevo scritto la nota sul concerto di cohen mi aveva mandato questo messaggio:

"hai scritto molto molto bene, con tanta poesia.
congratulazioni per le emozioni.
ernesto "

congratulazioni per le emozioni mi era parsa un'espressione così intensa, che ci avevo pensato molto sopra. il grande dono di possedere emozioni e di saperle trasmettere. come faceva lui.
credo che non riuscirò mai a cancellarlo dalla rete, quel messaggio. e, quando me ne andrò anch'io, chi vorrà, lo farà sparire con me.

ieri sera, come ogni domenica, avrei voluto ascoltarlo in radio. ma ho pensato che le trasmissioni erano riprese in un altrove irraggiungibile a noi. un bellissimo programma, in diretta live tutti gli artisti che ama.
e mi sono sentita più leggera.

giovedì 13 gennaio 2011

la vita, secondo mio figlio.

La vita è
l’aria d’ottobre,
un cielo stellato di notte, ove
tutto tace.
La vita è soltanto
un ronzio di grilli e cicale
che sovrastano il suono silente
del mondo.
La vita è
un battito di cuore,
una scala lenta
di note malinconiche.
È un vecchio pianoforte.
È il cinguettio primaverile
di un usignolo.
È il silenzio della montagna.
La vita è un “Ti voglio bene papà”,
è un regalo ad un bambino.
È il sorriso del tuo migliore amico.
La vita è una cosa grande
che si trova soltanto
nelle cose piccole.
La vita è speranza, angoscia, dolore, amore, tristezza, e tutti
i sentimenti umani, anche i più banali.
La vita è solo un Uomo,
soltanto un Uomo.


Giorgio Mentasti, 13 gennaio 2011.

lunedì 10 gennaio 2011

è un brusìo, la vita





c'è rumore, fuori di qui. clacson auto moto voci aerei autobus sirene. rumore, che fa intuire movimento, azione, tempo che passa, cambiamenti e passaggi.
la vita, insomma.
qui dentro, invece, silenzio. e apparente immobilità. ma non c'è vuoto, né assenza. le parole restano come sospese; incise sulla pietra, oppure echi nella memoria.
passiamo silenziosi, ma non vuoti, né assenti, fra le tombe e le pietre, fra le parole e le piante. lenti e rispettosi, come i gatti che vivono qui attorno, rendiamo omaggio al silenzio di chi, vivo, seppe dire meglio di noi, e ora, morto, vive più di noi vivi.

Can death be sleep, when life is but a dream,
And scenes of bliss pass as a phantom by?
The transient pleasures as a vision seem,
And yet we think the greatest pain's to die.
How strange it is that man on earth should roam,
And lead a life of woe, but not forsake
His rugged path; nor dare he view alone
His future doom which is but to awake.




Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio, infecondo...





That Light whose smile kindles the Universe,
That Beauty in which all things work and move,
That Benediction which the eclipsing Curse
Of birth can quench not, that sustaining Love
Which through the web of being blindly wove
By man and beast and earth and air and sea,
Burns bright or dim, as each are mirrors of
The fire for which all thirst; now beams on me,
Consuming the last clouds of cold mortality.



ma la pioggia cade ovunque, dentro e fuori di qui. sottile e silenziosa, bagna i fiori, i gatti, le pietre, i passi di chi si muove, i pensieri di chi si ferma, e anche le fibre indicibili che trasformano i corpi in linfa, potenti come le parole che un giorno erano di quei poeti, e ora si sono trasformate in noi.
sì: il silenzio e l'immobilità, qui dentro, sono solo apparenti. la vita passata e quella presente scorrono l'una nell'altra, bagnate dalla stessa pioggia.


è un brusìo, la vita.