venerdì 5 settembre 2014

Sick lit? Ma per favore


La malattia.
Il dolore.
La morte.
La vita.
L'amore.
Di cosa si vive, e si muore? Di questo, in fin dei conti.
Parlarne, scriverne, farne arte, aspirazione eterna.

E lasciare qualcosa oltre sé, dopo sé, dopo che si è passati oltre, o svaniti nel nulla.
Exegi monumentum aere perennius. Orazio.

E forse io solo
so ancora
che visse. Giuseppe Ungaretti.

Che tu sei qui,
che la vita esiste e l’identità, 
Che il potente spettacolo continui, 
e che tu puoi contribuire con un verso. Walt Whitman.

Sono innamorato di te, e so che l'amore non è che un grido nel vuoto, e che l'oblio è inevitabile, e che siamo tutti dannati e che verrà un giorno in cui tutti i nostri sforzi saranno ridotti in polvere, e so che il sole inghiottirà l'unica terra che avremo mai, e sono innamorato di te. John Green.

Ci sono due ragazzi, che sanno di dover morire presto. Abisso misterioso e insondabile, tremendo, orrorifico. Loro ci guardano dentro, senza coraggio, con la sfrontata incosciente ironia degli adolescenti. Piangono poco, ma solo perché non perdono tempo a piangere. Sono troppo occupati ad amare la vita, ad amarsi.
Parlano, si baciano, ridono, camminano sulla crosta di terra durante attimi preziosi, prima che questa li inghiotta. Non lasciano altro, oltre sé, tranne la loro storia. Anzi, lasciano qualcosa: la loro storia, immaginata da uno scrittore, resa immagini da un regista. E penetrata nel cuore e nella memoria di chi l'ha vissuta con loro.
Non vivono in un videogioco. Non hanno superpoteri. Non devono misurarsi con forze oscure dai nomi fantasiosi. Non è una distopia immaginaria, la loro. Il male ha un nome comune, e si chiama tumore. Il loro tempo è il nostro, quello dominato dall'illusione dell'eterna giovinezza e tutto teso ad esorcizzare malattie, vecchiaia, morte, nascondendole sotto il tappeto dell'apparenza, inebetendole con la chimera del possesso.

Ci sono due ragazzi, che strappano al tempo il loro pezzetto di infinito, e ne fanno un'esplosione di attimi di gioia, prima del buio, e del silenzio. Perché anche il dolore chiede di essere vissuto. E c'è una voce, che è quella dello scrittore, e poi quella del regista, che dà forma all'esplosione, per renderla, a modo suo, infinita. Per restituirla al ricordo dei lettori, degli spettatori, con la stessa intatta profonda leggerezza. Per suscitare in loro le stesse domande, e donare le stesse risposte.

E la chiamano sick lit. Ma per favore. Basta con la mania di catalogare tutto, di vedere ovunque cinica speculazione. Chi ha vissuto con malati terminali conosce la loro disperata vitalità, la forza senza coraggio, la tenacia dell'attaccamento all'esistenza e al suo senso.

Che sia questo, proprio questo, il significato del successo di un libro, e di un film, che parlano, finalmente, di morte, dolore, malattia, amore, vita?