sabato 12 dicembre 2015

Keep the light

Ci sono andata perché non ne ho mancato uno. Ci sono andata perché ero in missione. Ci sono andata perché il Light of Day mi riempie di gioia ogni volta.
Ci sono andata perché lì sapevo di essere a casa, di vedere facce simpatiche, di quelle che ogni tanto incrocio sui social, ma che dal vivo sono immensamente più ricche, di umanità vera, di sincerità e di energia.
Perché sui social si può scrivere, rileggere quanto si è scritto, premere il tasto invio, e poi anche modificare quello che c'è scritto. Mentre dal vivo non esiste il tasto modifica, si va in presa diretta, il tasto invio è nella dimensione del qui e ora. E le urla escono, le risate esplodono, le lacrime e i brividi galleggiano come i pensieri senza emoticon.

Ci sono andata perché dovevo tornare a casa con due autografi per una persona che amo.
Ma sono tornata a casa con la magnifica sensazione di essere stata nel posto giusto, nel momento giusto.
Una vera amica mi ha invitato nel suo bar, e da lì dispensavo birre e sorrisi, saltelli e canti, e vedevo facce beate, sentivo i miei amici cantare e battere le mani, e a un certo punto non ho visto più niente, perché tutti erano in piedi, alcuni sul bancone, ed era stupendo non vedere, ma sentire tutta quella energia che circolava liberamente.


Ho ascoltato una versione in dialetto di The Ghost of Tom Joad, mi sono incantata di fronte a una Hold on densa di significato, ho saltato su One Guitar. Ma soprattutto, ho percepito la forza che solo un live sa e può dare: una condivisione con tutti i cinque sensi.

Ci sono andata, e ci tornerei. E ci tornerò, nel pensiero, ogni volta che penserò di averlo solo sognato, un mondo così.

domenica 15 novembre 2015

Parigi, o cara


Perché ne ho sempre sentito parlare, da mia madre, che aveva un amico speciale in Avenue Gréard, in una casa con vista sulla Tour Eiffel, e per me scrivere il suo nome sulle cartoline aveva il sapore di mondi inesplorati.
Perché è stata la prima città visitata da sola, a 13 anni. Libertà, uguaglianza, fraternità, i primi volti di altre etnìe visti nella mia vita, il profumo acre del métro, di gomma e umanità.
Perché mi ci sono persa a 19 anni. Les Halles in costruzione, un walkman mastodontico che mi accompagnava ovunque, la solitudine e la scoperta, e quintali di cultura a sedimentarsi dentro di me, per forgiare le mie scelte.
Perché ci sono tornata molte altre volte, e per me è stato amore, fuga, slancio, poesia, lei così grigia e beige e verde, lei così luminosa e gotica, lei dai grandi parchi e dai piccoli cafés in cui rifugiarsi.
Perché ci ho portato i figli, ed è stato rivederla magnifica, splendente, una scommessa vinta sull'opacità del quotidiano.




E perché Parigi per me è sempre stata giovinezza, musica, fisarmoniche in un angolo della strada, e sguardi fieri di appartenere alla noblesse dell'Europa. E' stata, ed è, altro dalla Francia. Un'icona mondiale, la sintesi del gusto, della bellezza, della democrazia, dell'integrazione e della libertà a cui ogni uomo dovrebbe aspirare.
Perché in questi giorni ho pensato alla Siria, alla Nigeria, all'Egitto e a tutti gli altri posti che questa guerra subdola, infame, incommensurabile nella sua disumanità ha toccato. Ma niente, non posso smettere di pensare alla ferita di Parigi come a qualcosa di più mio.
Perchè Parigi mi ha insegnato a pensare, fremere, amare e sorprendermi per ogni giorno che vivo. E ora mi sta insegnando a essere umana, ogni giorno che vivrò.


sabato 24 ottobre 2015

Tunc terra emittit illum suum halitum divinum ( Expo 2015, o del respiro della terra )

Al netto degli sponsor indebiti,
dei visitatori da fiera gastronomica,
delle scolaresche annoiate,
degli anziani incattiviti,
dei turisti storditi,
dei fanatici dei selfie,

e al netto delle code,
del vociare costante,
della musica techno,
del cibo spazzatura,
della disorganizzazione generale,

di Expo 2015, Milano,
all'attivo resta molto.


Gli occhi dei fratelli lontani quando incrociano i nostri,
i volti pensosi degli studenti nel Padiglione Zero,
la fatica dei docenti nello spiegare e fare capire,
i sorrisi dei volontari disponibili ad aiutare,
lo zoppicare degli anziani determinati a vedere,
l'andirivieni incessante dei passi sul decumano,
lo spalancarsi degli sguardi davanti all'albero della vita,
l'annusare spezie, profumi, odori, che nessuna virtualità, mai, riuscirà a rendere interi.


E le architetture ardite, partorite dalla mente umana,
le luci della sera che accendono il luna park del mondo,
le iperconnessioni e i rimandi e il libero gioco dell'intelletto,
la storia dell'uomo, mirabilmente simile ovunque, a qualunque latitudine, in qualunque tempo,
la fantasia e la creatività nel costruire i percorsi,
gli oggetti piovuti da ogni parte del mondo, frutto delle mani di uomini e donne lontani, eppure vicini.

Siamo uno, ma non siamo gli stessi, e dobbiamo sostenerci a vicenda.  
Quanti siamo.Quanta dignità abbiamo.
Tutti lavoriamo. Amiamo. Soffriamo.
Esprimiamo la nostra gioia e la nostra pena di essere vivi.
Creiamo arte, bellezza, cibo, cultura, emozioni.
Forgiamo sogni, che spiccano il volo dalle nostre mani, e arrivano dove mai avremmo osato.

Perché siamo api operaie, tutte. Anche quelle che pensano di essere regine.
E, quando finiremo noi, finirà questo grumo di acqua terra sangue e idee che chiamiamo mondo.
Intanto, continuiamo questo sogno che chiamiamo vita.










venerdì 16 ottobre 2015

Orient_arsi

Migliaia? Sì, credo migliaia. Jeans, Converse, zaini, piumini, brufoli e occhiali.
Migliaia a cercare di capire, a immaginare il futuro. Hanno tredici anni, hanno diciannove anni, hanno l'età delle scelte. Tutti in una fiera, che si chiama con un nome inglese perché fa giovane. Nella fiera si vende il futuro. Negli stand non circola moneta, non ci sono bancomat né contanti. Nell'aria c'è attesa, tensione, voglia di capire, e fluttuano domande, dubbi, richieste.

Ci sono i ragazzi studiosi, che ti frugano negli occhi, a cercare una conferma, e ascoltano annuendo, certo, sì, il metodo di studio, e i compiti, l'impegno, l'organizzazione, ma c'è tempo per fare tutto?, e posso continuare il basket il pianoforte il volontariato?, imparare a imparare, ma quante ore si fanno di matematica? e il latino a cosa serve?

Ci sono i ragazzi che fingono di non essere studiosi, perché fa figo, e arrivano sbruffoni, fanno battute, ma io non sono un secchione, figurarsi, voglio studiare il meno possibile, ma c'è il gruppo sportivo?, ma intanto guardano il quadro orario e prendono l'opuscolo, ché non si sa mai.

Ci sono i genitori ansiosi, arrivano prevenuti, ma una mia amica mi ha detto che, ma è vero che ne bocciano tanti?, ma i professori sono di ruolo? e la mensa, la mensa c'è?, e intanto studiano le parole, le soppesano, incerti se credere alla prima impressione o cedere ai pregiudizi.

Ci sono i futuri universitari, arrivano sicuri di sé, o forse millantano sicurezza, ma in realtà hanno una paura fottuta del futuro. Gliela si legge negli sguardi, l'inquietudine ormonale di chi sta stretto nei panni dell'adolescente, ma quelli dell'adulto gli stanno ancora larghi, e adottano gesti maturi senza convinzione, per imitazione, sperando in un miracoloso processo di osmosi.

E ci siamo noi, al di qua degli stand, a cercare un equilibrio fra realtà e illusione, fra verità e menzogna, fra la scuola che vorremmo e quella che viviamo, fra il sogno e l'augurio. Non mentiamo, no, quando diciamo "vedrai che ti troverai bene", perché lo pensiamo davvero, ed è immensamente bello vedere sorridere il futuro dentro quegli occhi, almeno per un momento, almeno nei desideri.

Loro, noi, uniti dalla speranza.

domenica 20 settembre 2015

Il giradischi

"Mamma, ma quando fai sistemare il lettore per i vinili?" -
"Cosa? Vuoi dire il giradischi? O il piatto per gli LP, i 33 giri, gli album?" -
"Sì, quello...è lì da quando sono nata, ma non lo hai mai usato..."

Non è lì da quando sei nata. E' con me da molto prima. Uno stereo non compatto, due casse, un piatto, un amplificatore, una radio analogica, con le rotelle e la luce che illumina le stazioni, un mangiacassette e due piastre, in modo da registrare le cassette che mi prestavano, e anche i dischi, ovviamente.
Comprati tutti con i risparmi dei miei primi lavori, assemblati con cura, facendomi aiutare da un amico audiofilo. Quando ho cambiato casa, ho costruito la libreria in funzione di dove avrei potuto sistemare i miei gioielli. Aspettavo che la casa fosse vuota, per mettere sul piatto a tutto volume la musica che amavo, non solo rock, ma anche classica. E restavo lì, occhi chiusi, sdraiata sul divano, a lasciare che il mio corpo assorbisse le onde, ci si immergesse dentro, nuotasse nel suono, e riemergesse corroborato.

Poi, è arrivato il tempo del poco tempo da dedicare all'ascolto. Poi, è arrivato il tempo della musica liquida, dei cd, degli mp3, dell'ipod e del pc.

Ma il tempo è circolare, e le onde tornano. Così, il giorno del tuo quindicesimo compleanno, un amico arriva a casa, e rimette in sesto il piatto, l'amplificatore, le casse, la radio. Il mio regalo di compleanno per te.
E ti insegno i gesti che credevo di aver cancellato per sempre.
Estrarre il disco dalla custodia, con delicatezza, tenendolo per i bordi, con la punta delle dita.
Metterlo sul piatto, azionando la leva della puntina.
Alzare il volume dell'amplificatore.
Durante l'ascolto, aprire la custodia, così bella, vivace, creativa, e leggerci dentro i testi, ammirare le foto, scoprire nomi e collaborazioni.
Quando una facciata è finita, girare il disco dal lato A al lato B.
Scegliere la traccia individuando il solco più scuro e spesso.
Ad ascolto concluso, togliere il disco con altrettanta delicatezza, riporlo nella custodia, e scegliere con cura un altro disco.

La lentezza, l'attenzione, il rispetto per un'opera d'arte. Occorre avere tempo, per tutto questo. Tempo solido, concreto, per immergersi nelle onde sonore provocate da un disco di vinile.

E tu, come primo disco, scegli questo:


Ti distendi sul divano, ti guardo; e il tempo si riavvolge. Non sei più tu, ma sono io, la figurina distesa che ascolta con la custodia del disco in mano, leggendo attenta testi e note. E tutti quegli anni in mezzo si sbriciolano, in minuti frammenti sonori.

Un vecchio amico, quando lo ritroviamo, è come se ce lo fossimo sempre tenuto vicino. E il discorso riprende, naturale.
Tùffati anche tu in queste onde. Ricominciamo a nuotare.

domenica 13 settembre 2015

Sogna, ragazzo


Quanti anni sono passati, da quando ho scritto queste righe? Quattro? Mi sembrano quattro giorni, ragazzo.
Intanto, tu hai corso, sofferto, studiato, suonato, letto, viaggiato con o senza me, baciato, corso, e soprattutto vissuto. Hai scritto qualche strofa di poesia, di nascosto, la notte, immaginandoti adulto, o forse lo eri, lo sei già. Hai sognato e sperato, e ti sei trovato dentro ai tuoi sogni, e hai capito che potevano diventare realtà.
Io? Io ti ho visto correre, soffrire e viaggiare. Ho sbirciato nei fogli della tua poesia, con il pudore antico che mi sono scoperta dentro, e che deve essere eredità inconsapevole. Ho taciuto e parlato, quando il cuore mi dettava le parole, per non sentirmi dentro quel peso, il terribile peso del rimorso.

E ora? Ora ti guardo correre verso il tuo ultimo primo giorno di scuola. Vedo attraverso la tua anima inquieta, carica di libri, ma anche di amore. Ricca di amici che quattro anni fa non avevi. Ricca di uno sguardo di giovane donna che ti ha illuminato i giorni. Il tuo passo è un volo leggero, il tuo sorriso è un abisso di promesse.
Questa è a volte la vita: onde immense che si frangono contro piccoli scogli; eppure l'uomo sta. fragile, ma forte.

Ti lascio andare, ti guardo volare verso il tuo ultimo primo giorno. Entrare nei tuoi sogni, sarebbe come  violarli. Però, però, vorrei vederti realizzarli. Almeno qualcuno. Almeno i più belli.

sabato 30 maggio 2015

Take it easy, Brother Jackson

In punta di piedi sei entrato nella nostra vita.
Un consiglio di un amico, una sera, quando vedere la televisione aveva un senso, perché trovavamo amici che ci mettevano in tasca un disco, dicendoci "ascolta questo, a me piace, penso possa piacere anche a te", così, per amicizia, senza calcolo.
In punta di piedi, la tua voce.
Sommessa, discreta, così lontana dalle urla di quei tempi arrabbiati, la tua voce ci cantava, senza decantarla, la nostra età. Straordinariamente coetanea, la tua voce dava voce alle nostre stesse incertezze, ai sogni e ai rimpianti.
Da te abbiamo imparato ad accettare la sconfitta, a reagire con dolcezza, a non arrenderci mai. E abbiamo seguito il tuo sentiero di coerenza e impegno, guardandoti da lontano, incrociandoti dal vivo qualche volta, sempre considerandoti un punto fermo. Bob, Neil, Bruce, Warren, e te, Brother Jackson, il fratello maggiore che avremmo voluto.
http://www.mescalina.it/musica/live/27/05/2015/jackson-browne


La nostra città è un po' ruvida, ma qualcosa di buono ce l'ha. Un teatro bello e sontuoso, che tu vorresti anche in America, se non fosse che non si può costruire in serie, dici. E questo teatro ti accoglie sorpreso, mentre entri, in punta di piedi, a luci accese, come chiedendo permesso. Nessun annuncio roboante, fumi, raggi laser, sigla hollywoodiana. Solo tu, e i tuoi compagni musicisti.

In punta di piedi, la tua chitarra disegna accordi nell'atmosfera della sala, e intreccia una rete da cui pochi vogliono  liberarsi. E' la rete di una vita, e una vita che ha lasciato i segni, sul tuo volto, sui tuoi capelli, sulla voce, forse anche nella tua anima. Noi ti abbracciamo, con affetto; l'affetto non si può misurare né contenere, qualcuno esagera, scusaci, siamo così contenti di rivedere la tua faccia sorridente stasera, che vorremmo trattarti come il nostro juke box personale, chiederti i pezzi che hanno segnato la nostra vita, parlarti e ringraziarti.

Tu invece sembri emozionato, preoccupato. Ti senti stanco per il cammino, non ti sembra di darci a sufficienza, ti sembra strano che conosciamo Woody Guthrie, o che riconosciamo le tue canzoni al primo accordo, che il tuo mondo e il nostro siano rimasti così coesi, vicini, simili. Sembrate arresi, indifesi, tu e la tua chitarra, e i sogni che custodisci nel cuore sgorgano lentamente, quasi con fatica.

Ecco, Brother Jackson. Rilàssati. Sappiamo il suono che hanno fatto i nostri passi in volo; abbiamo dovuto lottare, e combattere per non dimenticare compassione e comprensione. Potremmo ridere di te, e di noi, che ci ostiniamo a seguire quel percorso. Ma continuiamo a sorridere, così luminosi e chiari. Vorremmo prendere la tua mano, e dirti take it easy, it's alright, ti capiamo, abbiamo anche noi i tuoi dubbi, e quei rimpianti, eccome se li conosciamo, ma, no, che non molliamo, e sappiamo cosa prendere, e cosa lasciare.

E tu, che hai sempre avuto le antenne dritte sui cuori di chi ti segue, lo capisci, alla fine. No, non cambi la scaletta, ma metti nel saluto tutta l'energia possibile, come un maratoneta arrivato nello stadio. Ti guardi attorno, sorridi a noi, stretti sotto il palco, a cantare e saltare e ridere con te, arrivato dopo un lungo cammino, attraverso il deserto, per trovarci qui, nel sole di questo teatro, a riscoprire il senso del viaggio.


E vogliamo crederci, che non siano le solite parole, quando dici "è un posto bellissimo, vorrei tornarci qualche volta". La tua mano sul cuore non mente.
Ti aspettiamo, Brother Jackson. Sitting on corner stones, facing our failures. Ma con la forza di guardare al futuro.










martedì 26 maggio 2015

These days

Vieni qui, figlia, che ti racconto quei giorni.
Erano giorni sospesi e incantati, presi in scacco fra sogno e ipotesi, con la realtà che si faceva strada fra i dubbi e le sicurezze.
Erano giorni di amicizie, e radio a scandire il sottofondo delle nostre emozioni, radio libere, ma libere veramente, e in mezzo noi, e i nostri discorsi pesi o leggeri, l'impegno e il solco di una coerenza solo immaginata.
Erano giorni di musica, nuova, che veniva da lontano, che più lontano non si poteva. La chiamavano West Coast, ed era così sorprendente seguire il fratello Jackson che cantava i tuoi stessi dubbi, e le paure, e le emozioni, così sorprendente, che ti chiedevi come diavolo riuscisse a leggerti dentro, lui, a così tanti chilometri di distanza. A leggere l'inespresso desiderio di appartenere a un solo, grande mondo, a una sola, profonda umanità, a un solo, inquieto modo di essere, di vivere.
Erano giorni di pensieri, di aperture a prospettive inedite, e a quella voglia di cambiare tutto, che hai voglia a dire che ce l'hanno tutti i ventenni, ma no, non credere, quei ventenni ce l'avevano più degli altri, perché sapevano di avercela prima di tutti gli altri.
Erano giorni di amore e di abbandoni, di magie e di semplicità, di incanto e di mistero. Giorni di una strada tutta da consumare e vivere.

Vieni qui, figlia, che ti porto ad ascoltare Brother Jackson.
Forse, al primo accordo, capirai cosa sono stati, quei giorni.

lunedì 27 aprile 2015

Questo sono io ora: un peso leggero, che sta in una mano



Con la discendenza date sostegno alla stirpe:
volentieri io salpo sulla barca,
perché in tanti dei miei si prolungherà il mio destino...
Ora a te io raccomando il dono comune dei figli:
quest’ansia vive inconsunta nelle mie ceneri.
Fa’ loro anche da madre, tu che sei padre:
la mia frotta di figli ora dovrai portarla tutta al collo tu solo.
Quando li bacerai piangenti, aggiungi i baci della madre:
il peso di tutta la casa d’ora in poi graverà su te solo.
E se avrai voglia di piangere, fallo quando sono lontani!
Quando verranno,
con asciutte guance illudi i loro baci!
A tormentarti per me ti bastino, Paolo,
le notti e i sogni in cui crederai spesso di ravvisare il mio volto;
e quando nel segreto parlerai alla mia immagine,
parlami come s’io potessi risponderti.
Se però la casa vedrà un nuovo letto
e una prudente matrigna si assiderà nel mio talamo,
approvate, figli, e accettate le nozze del padre:
essa s’arrenderà vinta dalla vostra dolcezza.
Non lodate troppo la madre:
confrontata alla prima, essa vedrà un’offesa
nelle vostre imprudenti parole.
Ma se, nel ricordo di me, egli resterà fedele alla mia ombra
e penserà che di tanto sian degne le mie ceneri,
fin d’ora imparate ad accorgervi della vecchiaia che per lui giunge:
per l’uomo che è solo nessuna via resti aperta agli affanni...
Va tutto bene:
mai, come madre, io ebbi a prendere il lutto:
alle mie esequie è venuta tutta la schiera dei miei figli.
È perorata la mia causa.
Alzatevi voi che mi piangete, testimoni,
mentre grata la terra mi rende il compenso per la mia vita.
Alla mia virtù s’aperse anche il cielo:
ch’io sia degna, per i miei meriti,
che la mia ombra navighi sulle acque dei pii.
 (Properzio, Elegie, IV, 11)


E accade, durante una mattina di pioggia, che, nel silenzio delle menti pensanti, risuonino queste parole antiche di duemila anni. Che gli occhi si inumidiscano. Che venti diciottenni si turbino al pensiero del dolore, del rimpianto, della nostaglia. Ognuno ricorda un lutto vissuto, teme un dolore futuro, si emoziona per una perdita lontana nel tempo e nello spazio, eppure così potentemente reale, immediata, vicina.

Properzio è l'esile filo che ci lega tutti insieme, in questa mattina di pioggia. 

Ed è giusto, e umano, asciugarsi le lacrime.

venerdì 24 aprile 2015

Humanitas, non solo il 25 aprile

Mio padre e mio zio erano credenti, cattolici e praticanti. Così mia madre, tutti e quattro i miei nonni, tutta la mia famiglia. Non credo che qualcuno di loro abbia mai votato PCI o simili. Eppure, ricordo con chiarezza i loro racconti del 24 e del 25 aprile. Accanto alla pietà per come erano stati trattati i cadaveri di Mussolini e della Petacci, e alla lucidità con cui parlavano delle donne fasciste rasate a zero, c'è un valore che nessuno di loro ha mai messo in discussione: l'antifascismo, che si accompagnava sempre, nei loro racconti, al ricordo del sollievo per la fine di un ventennio di ordine, disciplina, pulizia e rigore, ma in cui mancava l'ingrediente principale per una vita dignitosa: la libertà. E, con essa, la solidarietà, la partecipazione, il dialogo, l'ascolto del prossimo.
Devo questo tipo di mio antifascismo a mio nonno Francesco, operaio in Ticosa, che ha sempre rifiutato di prendere la tessera del PF; a mio nonno Eugenio, imprenditore, che ha rifiutato di fare affari coi tedeschi; a mia nonna Margherita, maestra, che faceva leggere il Vangelo nelle pagine delle Beatitudini (beati gli operatori di pace...); a mio zio Emilio, salito in montagna a fare il partigiano; a mio zio Antonio, marinaio a Supermarina e disertore.
Devo a loro la mia educazione al rispetto. E credo ancora che l'antifascismo non abbia colore ideologico, ma un solo colore etico: quello della radice profonda dell' Humanitas, che cerco di realizzare in ogni momento della mia vita, non solo il 25 aprile.


Homo sum: humani nihil a me alienum esse puto.

sabato 7 marzo 2015

Rocking rocket chairs. Fra Rewind e FastForward

REWIND
In principio era questa:



Ed in principio erano i vent'anni, l'epica del r'n'r, la scoperta di una mitologia che il Far West è niente al confronto: freeway, freedom, free, nel senso di gratis, perché free erano le emozioni elargite a piene mani dalle onde captate dall'antenna TV di casa.
Ed erano America, riff di elettrica, e basso e batteria a segnare i chilometri fra la musica e il cuore, ogni volta più vicini, e una voce quasi nera, e quel tappeto di note dell'Hammond. Bastava poco per sentirsi nel New Jersey, con la Corvette stipata e pronta a viaggiare verso Ovest, che è poi la direzione di tutti i viaggi nati per perdersi e trovarsi.
Erano notti a parlare e sognare, progetti senza brevetto né autorizzazione, a costruire l'impalcatura del nostro futuro. Ma tutto, purché fosse con la musica fuori, sotto,dentro e oltre.
Erano giorni a farsi spazio in un mondo che non sentivamo (ancora? più?) nostro. Ma tutto, purché fosse con una musica come quella in testa.

Poi, lunghi anni di testa bassa e pedalare su un sentiero in salita, a respirare quando ci sembrava che ci fosse almeno un falsopiano, e sempre senza guardare oltre, in alto, altrove, per timore di non vedere niente. Ma sempre, aggrappati ai manubri dei ricordi e di quei sogni, che forse non si sono avverati, ma che bello, sentirli ancora nostri.
E il ritmo del tempo scorre, anche senza che lo vogliamo, né che ce ne accorgiamo. Amici scivolano via, altri restano nel cuore, altri li troviamo per strada, annusandoci simili, con guardinga circospezione.

Finché un venerdì sera, dopo una settimana a pedalare senza quasi respirare, arriva un brandello di senso.
Arriva una sedia a dondolo, su cui ci culliamo nel ricordo del passato, che a un certo punto diventa un razzo, su cui partire, senza paura, per vedere Milano e la nostra vita dall'alto, e intuire che sì, dopotutto, la strada ci chiamerà sempre, purché la sappiamo ascoltare.

E ora è questa:



FASTFORWARD
E tutti gli anni a venire, old rockers busted, che si ostinano a vivere free, convivendo con rughe, capelli bianchi o assenti, acciacchi e pensioni che non arrivano. Ma che non si arrendono, finché la strada chiamerà, e finché ci saranno un basso e una batteria a pompare sangue, un sax a soffiare emozioni, una voce a tirare fuori l'anima, un piano a disegnare sogni e una chitarra a ricamarli.
Perché i Rocking Rocket Chairs, quando tornano, è per sempre. E perché quando tornano, ci siamo noi a vivere il sogno con loro.

sabato 21 febbraio 2015

La lezione che non ti aspetti

La lezione che non ti aspetti è quella che ti danno i tuoi pari, o più giovani di te. Quella a cui non sei preparato. Quella che ti inocula un antidoto contro l'apatia, i pregiudizi, gli stereotipi.

Sei lì, con i tuoi dreadlocks e i piercings e i tattoes, lì, con la tua giacca e cravatta e occhiali cerchiati d'oro, lì, con i pantaloni col risvoltino e la barba curata, lì, con i capelli bianchi e la borsetta. Sei lì, seduta composta su una sedia, lì, semisdraiato sul pavimento, lì, curvo sullo smartphone, lì, col quotidiano sottobraccio. Sei lì, insomma, che aspetti di vedere (vedere? ascoltare? dire di aver visto o ascoltato?) un disegnatore di fumetti, e un cantautore, incrociare le loro idee, in una serata in cui saresti stato volentieri a casa a stirare, o al bar a bere, o in giro con gli amici. E ti aspetti di divertirti, di vedere e dire di aver visto. Curiosità, interesse, voglia di vedere ed essere visto.
Sei lì, e pensi di conoscere, di sapere, di avere già capito o saputo. Pensi di aver già consumato il personaggio, come divori un panino dal Mac, o un tofu al vegano, o l'arrosto di mamma. Ti aspetti che dica quello su cui sei d'accordo, con il tono e le parole che desideri, e che non ti scomodi troppo, anzi, per niente.

Invece.




Invece c'è Filippo Andreani che dice che Michele Zerocalcare Rech è una persona perbene. Ed è terribilmente serio. E Michele annuisce, ringrazia, ricambia. E tu sei lì, con le tue belle certezze che si sbriciolano, e credi che scherzino, e invece no, che non scherzano, lui ha proprio detto così, e l'altro l'ha pure ringraziato. Gli sguardi non mentono, sono netti e chiari, come il tratto di pennarello di Michele, come la voce di Filippo quando canta che non si arrende.

Due persone perbene che dicono di essere cresciute col punk, di avere legami coi centri sociali, ma anche che la satira non deve insultare le religioni, e che la dimensione della tribù è l'unica in grado di fare resistere ed esistere le persone. Che dicono che l'amicizia è il solo valore fondante, e che avere opinioni, e affermarle, è l'unico modo per essere coerenti nel tempo. Che non si limitano a condannare la guerra, ma ci vanno, nei posti dove la guerra si fa, che non si limitano a rimpiangere chi non c'è più, ma prendono carta, chitarra e penna, e scrivono di chi non c'è più.



Due persone perbene che non fanno perbenismo, due persone buone che non fanno buonismo, un punk che però è streight edge, un ultrà che però ha una figlia di un anno, il mazzo dei tuoi fottuti pregiudizi si spariglia, e tu  sei lì, e impari.


Impari dal basso, anche se non sei seduto per terra. Impari nudo, anche se hai un vestito di marca. Impari daccapo, anche se sei laureato o peggio.
Impari che l'umiltà, e il rispetto, non si comprano con i soldi, o con il matrimonio, con la laurea o con una diffida allo stadio. Sei lì, e impari, in silenzio. E, come sempre succede quando hai l'umiltà di imparare, alla fine ringrazi, e te ne vai, in silenzio.
E Filippo ti abbraccia.
E Michele ti risponde "Ahò, grazzie a tté!".
La lezione, adesso, si deve ripetere. Con parole tue.